Olimpiadi Letterarie

"L'uomo dei dolci."

Girone picche, genere Noir.

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  1. *SHORY*
     
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    Caratteri 10765 spazi inclusi, nota esclusa, titolo escluso.
    Nota: in Trentino esiste realmente un paese denominato “Fiè allo Sciliar”; ho apportato una variazione minima trasformando il nome in “Fié.”

    "L'uomo dei dolci."

    Mi chiamo Libero, sono di origini liguri e, a volte, mi comporto nel modo sbagliato.
    Prendiamo il servizio di leva: di stanza a La Spezia, causa problemi con un superiore, fui spostato in Sardegna. Non mi piacque e così simulai un attacco di appendicite che mi portò in sala operatoria. Ovviamente fui scoperto e, per i tre mesi restanti, venni confinato a Fié, una località del Trentino talmente fredda che, quando capitava di dover fare il turno di guardia la notte, sotto agli scarponi era necessario tenere gli zoccoli.
    Oltre a cappotto e giubba, indossavamo tre maglioni di lana; i magri sembravano grassi, i grassi enormi: io ero già assestato nella seconda categoria.
    Quella pseudo punizione mi portò a fare una scelta: anziché tornare al ristorante dei miei, decisi di aprire una pasticceria autogestita.
    Ero conscio del mio disturbo, mi era stato diagnosticato da ragazzo, quando, a fronte d'insuccessi scolastici o rifiuti femminili, mi avvicinavo al forno procurandomi scottature più o meno gravi.
    Oltre alla mia disregolazione, portai con me le ricette di alcuni dolci tipici della mia regione; essendo il primo cliente di me stesso, fu il clima a impedirmi di diventare un aerostato: per combattere il freddo si bruciano calorie e a Fié , in inverno, si scende sempre sotto lo zero.

    L’attività andava bene: passavo buona parte del tempo sul retro a cucinare strudel e linzertorte, facendo le mie brave apparizioni per verificare che i clienti fossero soddisfatti. Al banco si susseguì un numero imprecisato di ragazze: mi innamorai di tutte benché nessuna mi abbia mai considerato sotto quell’aspetto.
    L’ultima che assunsi fu una giovane di nome Aida, studentessa di psicologia; era tracagnotta e col naso a patata: per lei non provai attrazione, il che mi evitò altra sofferenza inutile.
    Dopo un po’ il suo indirizzo di studi cominciò a crearmi difficoltà; erano solo fantasie: quando rimanevo lucido a sufficienza, sapevo che per lei ero poco più di un datore di lavoro.
    Ogni tanto annaspavo; cercai di stabilire un nuovo equilibrio riprendendo a procurarmi le scottature e cominciando a fumare: in breve raggiunsi le trenta sigarette a notte.
    Aida non era affatto un’impicciona e, a parte le solite chiacchiere, soltanto in due occasioni mi parlò in modo serio: la prima quando disse che avrei dovuto socializzare di più, la seconda quando, all’inizio di novembre dell’ultimo periodo che avremmo passato insieme, mi consigliò di dare la disponibilità per occuparmi part time della cucina nel miglior albergo situato in quel di Fié alta. Si trattava della zona privilegiata, a due passi dai campi da sci, con ampi spazi, lago naturale, percorsi guidati, monti per le arrampicate. In tutte le stagioni i villeggianti arrivavano a frotte e trovare qualcuno che fosse all’altezza della fama e dei prezzi alle stelle non era per niente facile.
    Il padrone dell’albergo Susystern mi conosceva, si serviva da me; quando gli feci la proposta, accettò subito: “l’uomo dei dolci” in veste di sous chef sarebbe stato la pubblicità vivente circa la superiorità del servizio offerto anche dal punto di vista gastronomico.
    La mia decisione mi portò a un incontro fatale: considerate le esperienze fatte, avevo giurato a me stesso di chiamarmi fuori da questo genere di cose ma non ne fui capace.

    In hotel giunse Bea, una donna spettacolare: alta, magra, capelli scurissimi, portamento da modella, vestiti appariscenti.
    Stava a un tavolo singolo e desiderai subito saperne di più: ne parlai all’unica persona con cui avevo abbastanza confidenza.
    Per l’occasione la invitai a casa a prendere un caffè; era la prima volta e si guardò intorno curiosa: notò un posacenere colmo.
    - Non sapevo che fumassi.
    - Solo la notte, quando non riesco a dormire. Senti Aida, hai presente la donna che è appena arrivata in albergo?
    - La pantera?
    - Pantera?
    - Così la definivano in università: pensa, è stata mia compagna di studi.
    - Mi stai dicendo che la conosci?
    - In verità non benissimo: a un certo punto ha smesso di frequentare. È stato strano ritrovarla qui.
    - Potresti presentarmela?
    Il mio insolito entusiasmo non passò inosservato.
    - Libero, tu sei un brav’uomo: dammi retta, lascia perdere. Quella è una stramba: forse non ci hai fatto caso, ma è maniaca dei colori, ne indossa soltanto uno alla volta. Se decide per il rosso è rosso totale: non solo abito, scarpe e borsa, anche tutti gli accessori.
    Insistetti nonostante il ricordo doloroso dei tanti rifiuti ricevuti stesse ulteriormente disgregando il mio equilibrio.
    - Aida, io l’amo ma non oso dichiararmi: so di non avere possibilità, lei è troppo bella.
    - Il saperlo dovrebbe esserti d’aiuto per prendere la decisione giusta. E poi non è vero che l’ami: sei solo attratto dal suo aspetto e da ciò che conoscerla potrebbe rappresentare.
    - Che intendi?
    - Cambiamenti. Sei in gamba a fingere ma io l’ho capito: la tua vita comincia a stancarti e vorresti modificarla. Purtroppo non hai la più pallida idea del come e, peggio ancora, di dove vuoi arrivare.
    Non le diedi retta e continuai l’osservazione dal mio posto privilegiato: ogni tanto entravo in sala per ricevere i complimenti riguardo a una schwarzplententorte riuscita a puntino e mi illudevo che i suoi applausi fossero per Libero e non per “l’uomo dei dolci”.

    Fu in occasione di un compleanno celebrato nel grande salone del Susystern che ricevetti la pugnalata: quella sera la sirena d’azzurro vestita aveva compagnia.
    Il giovane seduto accanto a lei era il mio opposto: bel viso, alto, snello, elegante, sorriso perfetto.
    Dalla confidenza che c’era tra loro capii che si conoscevano da tempo.
    Ero turbato e non riuscii a nasconderlo: Billo, lo chef, cominciò a guardarmi strano quando feci attaccare il risotto alla mele per il tavolo quattro e a imprecare sottovoce quando sfaldai i canederli del sette.
    Billo era un amico ma in cucina occorre restare concentrati e lavorare di squadra; osservandomi meglio, si accorse che stavo male davvero e disse che, per quella sera, avrebbe fatto a meno di me.
    Uscii, mi fiondai nello stube più vicino e varcai un nuovo limite riguardo alle cose che non andrebbero fatte: presi a ingollare boccali di birra sino a quando fui totalmente ubriaco.
    Ridotto a uno straccetto, barcollando nel buio, passai davanti al Susystern dove si stava intonando a gran voce il canto benaugurale.
    Qui si fermarono temporaneamente i miei ricordi.

    La mattina dopo si scatenò l’uragano; intorno alla dieci venni svegliato da un bussare violento: la testa mi pulsava ferocemente e faticai a realizzare dove mi trovassi, ovvero nella camera che mi avevano riservato all’hotel. La polizia mi trascinò con sé senza troppi riguardi; non fu nemmeno necessario che mi vestissi: indossavo ancora gli abiti della sera precedente che recavano ampie tracce delle conseguenze subite dal mio stomaco a causa dell’eccesso di birra.
    Scoprii la dura verità riguardo a quel che si dice degli interrogatori: alle mie risposte vaghe, al mio insistere sul “non saprei” motivato dalle libagioni, le domande della persona seduta davanti a me si ripeterono inesorabili e si fecero sempre più pressanti.
    Entrò un altro tipo che, guardandomi come fossi un mostro, posò sul tavolo una serie di fotografie; la più parte ritraeva il volto di Bea e non era un bel vedere: aveva gli occhi strabuzzati, la lingua fuori per metà, il trucco sfatto, una cintura verde acqua a stringere inesorabilmente la gola.
    Le cose non migliorarono nei giorni successivi: quando si seppe in giro che ero stato trattenuto perché sul luogo del delitto era stato trovato un mozzicone con sopra il mio dna, tutti quelli che avevano creduto alla mia innocenza cambiarono idea, mettendomisi contro.
    Fioccarono le testimonianze: Billo spiegò quello che era successo e centrò la motivazione del mio malessere, aggravando, più o meno consapevolmente, la mia posizione. Il resto del personale di cucina confermò di avermi visto andare via stravolto, quelli che si trovavano allo stube dissero che mi ero allontanato ubriaco fradicio dopo aver attaccato briga con una coppia di paesani, particolare che la mia mente aveva rimosso.
    A suo tempo ero stato accolto benissimo e sapevo di essermi integrato nella comunità: improvvisamente ridivenni “lo straniero”, quello arrivato da fuori e che, dopo anni, continuava a parlare con accento diverso.
    Si era in piena stagione; un omicidio efferato non rappresentava una cosa buona per il presente né lo sarebbe stata per il futuro: le località turistiche devono rimanere immuni dalle brutture del quotidiano.
    Il desiderio di chiudere velocemente le indagini fece il resto: c’era il movente, ovvero la gelosia, la prova inoppugnabile trovata sul luogo del delitto, il mio intestardirmi sulla posizione del “Non ricordo, ero ubriaco”.

    Finii in galera: in pieno inverno a Trento la prigione è davvero fredda e ancor più lo diventa se il freddo esterno si estende anche nell'animo, come successe a me quando realizzai di non essere stato io a uccidere Bea: non ne avrei avuto la forza considerato che a stento ero riuscito ad arrivare in stanza.
    Mi giunsero alcune informazioni e venni a conoscenza del fatto che quella sera anche lei bevve molto e litigò col suo accompagnatore. In lacrime, si rifugiò sul dehor: l’uomo non la seguì ma, non vedendola rientrare, dopo un po’ uscì a sua volta e non riuscì a trovarla.
    Il cadavere apparve in mattinata, parzialmente congelato per l’esposizione notturna e seminascosto fra l’erba alta lungo la strada del lago: a scorgerlo fu un maniaco della corsa, abituato a ignorare il livello della temperatura.
    In attesa del processo, ebbi un’infinità di tempo per formulare delle ipotesi: tre aspetti continuavano a darmi da pensare.
    Primo: Aida aveva detto che la sua compagna d’università vestiva sempre dello stesso colore; per il cenone aveva scelto l’azzurro ma l’arma del delitto era verde acqua: simile, certo, ma non uguale.
    Dio sa se avevo esperienza di disturbo ossessivo-compulsivo, lo testimoniavano le ustioni che portavo sulle spalle: no, la cosa non quadrava.
    Secondo: la memoria mi riproponeva le sue ultime immagini da viva ed ero quasi persuaso che quella sera non indossasse nessuna cintura.
    Terzo: il mozzicone. In negozio non avevo mai fumato e le cicche le buttavo nel forno a legna: non volevo si pensasse che, mentre stava cucinando, “l’uomo dei dolci” aggiungesse agli ingredienti anche cenere e saliva.
    Questo era il punto più importante: chi avrebbe potuto impadronirsi della prova fondamentale e piazzarla sul luogo del delitto?
    Fu facile trovare una risposta e adesso sono sicuro che ne avrei la conferma se potessi guardare nella mente di Aida; oltre a molto altro, ci sarebbe di certo l’immagine di un giovane spezzacuori affiancato da due ragazze assai diverse fra loro: una slanciata e mora, l’altra bassa, cicciottella e col naso a patata.

    Edited by *SHORY* - 20/9/2017, 03:09
     
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    Conteggio esatto!
    10765

    Edited by violaliena - 17/9/2017, 23:48
     
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  3. *SHORY*
     
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    Grazie per la conferma :elton:
     
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    Ricontrollando non coincidono quasi mai: questa è una delle poche volte che ci troviamo alla perfezione :Emoticons%20(208):
     
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  5. *SHORY*
     
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    Arrivata al dunque, dopo l'esperienza dei "trattini", ho lavorato direttamente sul contacaratteri ufficiale ;)
     
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4 replies since 17/9/2017, 01:02   88 views
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