Olimpiadi Letterarie

Qui sei nato

Girone picche - Genere: realismo magico

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  1. Befana Profana
     
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    Mi chiamo Francisco Alejandro Penilla e tra meno di un'ora sarò morto.
    Non posso dire di non esserci preparato: sapevo da molto tempo che questo giorno sarebbe arrivato, da settimane ne conoscevo anche la data.
    Sì, lo sapevo, ma la consapevolezza è diventata reale, davvero, in ogni fibra del mio essere, solo nel momento in cui ho sentito le cinghie stringermisi intorno al corpo e il primo ago entrarmi nella pelle.
    E la tenda si è aperta.
    Non capisco come si possa desiderare di guardare un uomo morire. Eppure sono in tanti là davanti, ne ho contati almeno una decina, seduti, composti e attenti, come scolaretti. Non ne ho riconosciuto nessuno: non credo ci sia tra loro qualcuno venuto per piangere l'uomo che ho ucciso, né me.
    Quando mi hanno chiesto se avessi qualcosa da dichiarare, non ho risposto: cosa avrebbero voluto sentirmi dire, che mi dispiace? Non ho mai voluto essere un assassino, ma non ho avuto scelta. Asserire che lo rimpianga sarebbe mentire.
    Non avevo deciso di uccidere: mi sono difeso, fu lui ad attaccarmi, infastidito dal colore della mia pelle, dalle vocali trascinate o le erre fruscianti del mio accento caraibico, o forse dal semplice fatto di essere rinchiuso nella mia stessa prigione.
    Non mi pento: mi odiava, mi avrebbe ammazzato, sono stato più veloce, più forte di lui. Ci tenevo alla vita, allora.
    Ora non più.

    Il sedativo si diffonde dentro di me, scorre nelle mie vene, corrompendomi il sangue, un sangue misto ad acqua di mare, se devo credere alle parole di mia madre il giorno in cui le dissi addio.
    “Qui sei nato, qui tornerai, alla fine”.
    Quanto mi è mancato quel mare, in tutti questi anni. Non avrei mai dovuto lasciarlo.

    Chiudo gli occhi, non voglio guardare la seconda iniezione, né il pubblico impaziente.
    Dietro le palpebre chiuse immagino l'isola della mia infanzia, i giochi nelle onde con gli amici. Mi rivedo bambino, nuotare in quel mare caldo e accogliente che ha lo stesso odore della mia gente. Rotolare sulla spiaggia, di un bianco accecante sotto il sole alto, tra le reti stese ad asciugare. Rivivo le gare a chi scova la conchiglia più bella, nascosta sui fondali, il sale che brucia sulla mia pelle escoriata dai coralli. Come vorrei poter sentire ancora quel bruciore.
    Quando dieci anni fa mi trasferirono in questo carcere, ne fui quasi felice: una città costiera, avrei potuto sentire il profumo del mare nelle ore d'aria. In realtà succedeva di rado, solo quando il vento soffiava forte e nella giusta direzione, ma anche quelle poche occasioni erano per me fonte di gioia: annusavo l'aria per inspirarvi il più possibile, sul fondo, la nota salata così familiare, così rassicurante.
    La inalavo a pieni polmoni, tentando di ricordare ogni dettaglio di quando ragazzo accompagnavo mio padre attraverso la mangrovia, per pescare gamberi e granchi, vibrante di concentrazione e di orgoglio; mi sforzavo di ritrovare nella memoria l'immagine del mio genitore, intento a non incagliare l'imbarcazione in un groviglio di radici troppo fitto.
    Se solo avessi potuto parlare a quel bambino, dirgli di non crescere, di non sbagliare, di non buttare la sua vita.
    Giovane irruento e stupido, trovai l'isola troppo piccola per le mie ambizioni, volli lasciarla, sordo ai moniti della mia gente. Sognavo il continente, la grande città, la ricchezza. Non sapevo che lontano dal mio mare avrei perso me stesso.
    Solo, in una metropoli fredda e ostile, fatta di cemento e di acciaio, mi stancai presto di sfiancarmi per un lavoro da schiavo. Il denaro era a portata di mano, bastava afferrarlo: lo feci a piene mani, non avevo scrupoli né paura, non temevo nulla. Furti, rapine: denaro facile, speso in droga e alcool, con cui cercavo di mettere a tacere quell'intollerabile senso di mancanza che mi cresceva dentro giorno dopo giorno. Droga, alcool, donne e sempre più denaro per pagare il tutto. Quanti anni ho bruciato così, sforzandomi di non fermarmi a pensare, a rimpiangere? Fino a che non mi ritrovai in prigione, tradito da una di quelle donne con cui cercavo di dimenticare la nostalgia.
    Non c'erano più distrazioni, tra le mura di una cella: la nostalgia mi attendeva là. Con lei i ricordi, così vividi da fare male. Impossibile non pensare, non ascoltare me stesso.
    Il mio mare, l'isola, la mia gente, la vita di pescatore: tutto ciò da cui avevo voluto fuggire, ora lo capivo, erano parte di me. Avrei dato qualsiasi cosa per riaverli, per tornare là, in quel piccolo lembo di terra abbracciato dalle acque.
    Ma morirò qui, in questa terra ostile, lontano dalle mie radici, dalla mia gente, dal mio mare.

    È arrivato il momento.
    Non ho paura della morte: sta arrivando e la aspetto come una liberatrice.
    Avrei solo voluto vedere il sole specchiarsi sulle acque della Bahia Blanca ancora una volta. Come quando da bambini restavamo seduti sulla sabbia ad ammirare il tramonto, sordi a tutte le raccomandazioni degli adulti: lo spettacolo delle acque che ingoiavano la gigantesca palla di fuoco valeva ogni sacrificio, anche quello di farsi divorare dai gnàgnà, i minuscoli ma implacabili insetti che regnano sovrani sulle rive del mare al calar del sole. Nemmeno i rimproveri e e gli scappellotti a cui spesso si accompagnavano potevano scalfire il fascino che quella visione aveva su noi ragazzi.
    Il sole che incendia la linea sottile in cui il mare si perde nel cielo: l'essenza dell'infinito.
    Vorrei lasciare la vita con quello spettacolo negli occhi, l'odore umido di alghe e salmastro nel naso, nelle orecchie il frusciare affettuoso e insistente delle onde sulla riva. Se mi concentro, posso ritrovarne le sensazioni.

    Ecco, ci siamo: i muscoli non rispondono più, tutto il mio corpo è ormai immobile, non è più in mio potere, quasi non riesco più a sentirlo, né le cinghie; so che sono ancora lì e mi stringono: i polsi; le braccia; il torace; le gambe; le caviglie. Forse nell'eventualità di convulsioni, non so. Mi chiedo se l'ultima iniezione sia già arrivata o non ancora; quando il mio cuore smetterà di battere; quando finirà l'attesa.
    Mi concentro, penso al mio mare, voglio che sia il mio ultimo pensiero.

    «Apri gli occhi, Chico.»
    Conosco questa voce, è quella di mio nonno, la voce che, la sera, prima di dormire, mi raccontava le fiabe e le eterne avventure dei nostri antenati, le leggende della nostra isola.
    Dovrei essere morto, sono morto, legato al lettino nella camera delle esecuzioni, “l'Ultima Stanza” come la chiamiamo nel Braccio.
    Eppure posso muovere le mani, le braccia, le gambe, riesco ad aprire gli occhi.
    «Alzati, Chico, guarda: sei a casa.»
    Non sono più in quella stanza, non ci sono più muri intorno a me, né volti ostili dietro a un vetro.
    Sono a casa.
    Dietro di me la mangrovia, densa, ombrosa, sento il suo odore forte, penetrante, di umidità brulicante di vita. Davanti a me la spiaggia della Bahia Blanca, la sabbia è così chiara che brilla come polvere d'avorio sotto il sole caldo e immenso dei Tropici, lo sento sul viso, sul corpo, sento il calore dei suoi raggi.
    Al mio fianco Abuelo, nonno, ma non come l'ho visto l'ultima volta, cereo e consunto, sul suo letto di morte. No, ha le braccia forti e l'espressione saggia dei miei ricordi d'infanzia, su quel viso rugoso del colore del cuoio. Esattamente come lo rammentavo, ma meno denso, non so, meno concreto, forse; come se fosse un po' trasparente. Ma so che è reale.
    Mi sorride.
    Guardo le mie mani, le braccia, tutto ciò che riesco a vedere del mio corpo: sembro meno solido anche io, leggermente trasparente, come un po' sbiadito, forse. Mi sento leggero, ma vivo, mi sento bene.
    Tante domande mi affollano la mente, Abuelo sorride.
    «Qui sei nato, qui ritorni. Nelle tue vene scorreva l'acqua del nostro mare, la tua anima appartiene a questa isola, alle sue acque. Ora è libera di restare qui, per sempre.»
    Sono a casa, sorrido a mio nonno, avanzo sulla sabbia.
    Voglio toccare il mare.
     
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