Olimpiadi Letterarie

ERNESTO di MIOALTEREGO

Gruppo FIORI Genere BLACK COMEDY

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  1. Olimpiadi Letterarie
     
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    Ernesto aprì gli occhi lentamente. Aveva ancora il rumore dello sparo nelle orecchie. Il fragore della pistola di pochi istanti prima lo aveva solo frastornato.
    Addirittura aveva ancora l'indice nel grilletto e gli faceva anche male. Non era molto pratico con le armi, ma da circa un mese aveva tentato tutti i tipi di suicidio senza riuscirci.
    Si sentiva un nessuno, non era neppure riuscito ad uccidersi perché la pistola era caricata a salve, e lui non se ne era neanche reso conto.
    Il botto nello studio richiamò l'attenzione della moglie, con cui viveva da separato in casa, lei arrivò trafelata, spalancò la porta:
    “Vedo che ancora non sei riuscito a farmi diventare vedova”
    Gli si avvicinò con aria di disapprovazione per il tentativo fallito, gli tolse la scacciacani dalla mano e amorevolmente lo accompagnò a sedersi sulla poltrona fornendogli anche uno scottex per asciugarsi le lacrime di disperazione.
    “Matilde, non so più come fare, non voglio morire di cancro ai polmoni, non riesco a tollerare di essere sconfitto anche dalla malattia. Almeno quella la voglio fregare io: mi ammazzo prima!”
    La moglie lo guardò con accondiscendenza: aveva sposato un inetto. Uno che è perdente ancor prima di gareggiare per qualche scopo nella vita.
    Lo aveva sposato soltanto perché era enormemente ricco. All'inizio gli aveva anche voluto bene ma, col tempo, tutte le sue debolezze erano venute a galla e lei non lo tollerava più. Aveva chiesto il divorzio, e nell'attesa dell'udienza avevano continuavano a coabitare insieme alla loro figlioletta.
    Poi, tre mesi prima, Ernesto era stato ricoverato per una brutta broncopolmonite che, in realtà, a seguito di accertamenti, si era rivelata una neoplasia polmonare allo stadio avanzato.

    Gli restavano solo sei mesi di vita e questa terribile notizia lo aveva fatto impazzire al punto che, anziché aspettare dolorosamente la propria fine, cercava in tutti i modi di accelerare la dipartita con i più svariati metodi di suicidio.
    Il primo tentativo era iniziato con l'impiccagione: aveva scelto una corda abbastanza robusta, così almeno aveva creduto; aveva attaccato l'estremità al gancio del grande lampadario della sala, era salito sulla sedia con il cappio infilato nel collo e si era lanciato con un salto giù per terra. Purtroppo il peso del suo corpo, insieme a quello del lampadario, avevano fatto rompere l'anello d'acciaio del soffitto e si era ritrovato steso a terra, con tutte le lampadine illuminate attorno al petto, come un luminoso hula hoop.
    La cosa più sconsolante per lui fu vedere, dopo qualche giorno, la figlia che saltava la corda con cui egli aveva provato ad impiccarsi, a dimostrazione che l'energia vitale è più forte di qualsiasi incidente e che dopotutto la vita continua sempre.
    Il secondo tentativo era stato la precipitazione dalla terrazza del solarium della villa. Aveva preso bene le misure dei passi fino al parapetto, erano circa quattro piani dal lato del garage: aveva chiuso gli occhi e si era lanciato nel vuoto ma, proprio in quel momento, avevano finito di aprire la tenda veneziana sulla quale era rimbalzato cadendo nella piscina, ovviamente piena d'acqua, intiepidita dal caldo sole d'agosto. Niente, non era morto; aveva solo fatto un bagno dopo un volo carpiato, degno di una medaglia d'oro per tuffatori alle olimpiadi.
    Matilde si era anche arrabbiata perché, a causa della caduta, aveva rotto irrimediabilmente il parasole in tinta con i cuscini delle sedie sdraio. Un'altra spesa inutile da preventivare.
    Aveva scelto di buttarsi sotto un treno, aveva camminato a piedi lungo i binari e si era allungato sulle rotaie qualche chilometro dopo la stazione cittadina.
    Aveva aspettato l'espresso delle diciotto che gli sarebbe passato sopra esattamente dopo cinque minuti dalla fermata precedente.
    Purtroppo anche questa idea non ebbe la fine sperata, perché avevano modificato lo scambio dei binari per deviare il percorso a causa di lavori di ammodernamento della tratta ferroviaria.
    Fu ancora più triste per lui tornare a casa e trovare la piccola Arianna che giocava coi cuginetti con la pista del trenino elettrico.
    Il suo sconforto era indicibile!
    Ogni tanto pensava al tumore maligno che presto gli avrebbe rubato l'esistenza ma, avendo vissuto sempre in sordina e sempre da ultimo arrivato, aveva deciso di riscattare l'inutilità della propria vita con questo atto di ribellione: lui avrebbe deciso quando morire, il cancro terminale sarebbe arrivato in ritardo, lo avrebbe trovato già morto per qualsiasi altra sciagura, non per la malattia. Quando fosse arrivata la sua ora, l'avrebbe trovato già morto da un pezzo!
    Non si era mai sentito amato. La madre ogni tanto lo rimproverava dicendogli perché non fosse come il suo cugino Enrico. Il cugino in questione era morto un mese dopo la nascita.
    Aveva tentato anche con il veleno. Una sera in cui era rimasto da solo aveva preparato una bella cena a base di spezzatino alla cicuta. Aveva apparecchiato per bene la tavola e aveva messo nel piatto la pietanza. Poi, era stato più forte di lui, era andato a lavarsi le mani (non si mangia senza avere le mani pulite, l'igiene permette di evitare le infezioni) e al ritorno aveva trovato il suo cane stramazzato sul pavimento, col muso ancora pieno del boccone avvelenato che aveva rubato dal tavolo.
    Si ritrovò a piangere disperato a fianco al suo cagnolino inerme, un po' per la sua fine e un po' per la sua scampata morte. Ancora una volta la Morte snobbava la sua decisione prematura.
    Pensava a come andarsene prima che il tumore del pomone se lo portasse via.
    Matilde non lo amava, Arianna era più affezionata alla madre che a lui, il suo cane era morto avvelenato e il cancro lo aspettava alla fine dei sei mesi di vita.
    L'ultimo periodo fu il più brutto.
    Rimuginava sul metodo per porre fine alla sua esistenza, tuttavia pensava anche che questo fantomatico cancro non era poi così terribile, in fondo aveva fatto tutta la chemioterapia, gli accertamenti e assumeva tutte le medicine che gli avevano prescritto e non avvertiva né dolore né affanno e neppure era deperito.
    Le lastre parlavano chiaro, metastasi diffuse alle ossa e cervello, c'era ben poco da fare.
    Decise che sarebbe morto per asfissia: un bel sacchetto attorno al collo e sarebbe morto dormendo (dopo aver preso un sonnifero).
    La moglie lo trovò così, nel letto, sotto le coperte, inanime, freddo, rigido come un baccalà.
    Gli tolse l'involucro di plastica dalla testa e poi esclamò
    “Nessun problema è irrisolvibile, se si ha una busta di plastica di dimensioni adeguate”
     
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