Olimpiadi Letterarie

Animals

Gruppo picche Genere distopico

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  1. caipiroska
     
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    Gruppo picche Genere distopico

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    Nuvole nere gravitarono per tutto il giorno sulla città, gettandola in una notte prematura, mentre il cupo brontolio dei tuoni annunciava la pioggia imminente.
    Il clan di Erick si era preparato ad affrontare l’evento bardandosi come di consueto.
    Il trasferimento era sempre un momento delicato, ma tutti i membri del gruppo sapevano ormai cosa dovevano fare: i bambini più piccoli vennero sistemati dentro dei carrelli chiusi ermeticamente, quelli più grandi indossarono stoicamente le loro pesanti armature e al segnale stabilito uscirono dal palazzo che avevano occupato e iniziarono a correre.
    La pioggia corrosiva cadeva con impeto sul terreno lasciando piccoli crateri fumanti là dove toccava terra e il gruppo al centro esatto della strada cercava di muoversi il più velocemente possibile. Gli uomini armati circondavano il gruppo tenendo tutti il più possibile riuniti, lontano dai muri dei palazzi.
    Giada se ne stava nel gruppo dei bambini, faticando a muoversi sotto la pesante armatura di metallo che la proteggeva dalla pioggia acida. I tonfi delle corpose gocce rimbalzavano sul suo caschetto creando un macabro ritmo che si alternava a quello del suo piccolo cuore spaventato. Senza nemmeno che se ne accorgesse fu presa dal panico e si fermò in mezzo alla strada.
    “Forza Giada, forza!” la bambina cercò di guardare il padre in viso, ma la preoccupazione che vi trovò la scoraggiò ancora di più. Lui la cinse con un braccio spingendola con decisione, e nel clangore delle loro armature improvvisate, raggiunsero il centro del gruppo.
    “Alt!” il capofila alzò un braccio e tutti si fermarono. Lungo il viale un cavallo imbizzarrito stava correndo verso di loro.
    “Sparpagliatevi, presto! Ma non vicino ai muri! Presto!” il gruppo si divise e tutti fissarono l’animale arrancare verso di loro. La pioggia battente lo colpiva con ferocia bucandogli la pelle, corrodendogli le ossa, ma l’animale continuava lo stesso a correre fino a quando la criniera prese fuoco, avvolgendolo in un rogo violento.
    “Non guardare!” le intimò il padre, ma Giada non riuscì a distogliere lo sguardo dal cavallo impazzito che era diventato una palla infuocata che ardeva con uno strano rumore davanti ai suoi occhi.
    Volse lo sguardo a cercare il padre, ma lo trovò voltato a guardare il palazzo di fronte: branchi interi di animali se ne stavano affacciati ai vetri rotti delle enormi finestre ringhiando verso di loro, mentre al piano terra dalla penombra delle vetrine infrante apparivano i guizzi inquietanti di decine di occhi che si muovevano nervosamente avanti e indietro, fissandoli con odio. Un cervo gigantesco si sporse fuori nella loro direzione con un bramito agghiacciante, non curante della pioggia che lo colpiva con violenza bucandogli la pelle.
    “Via! Via!” urlò qualcuno, mentre gli uomini armati puntavano i loro lanciafiamme verso le vetrine più vicine.
    Giada chiuse gli occhi e iniziò a piangere: aveva paura, era stanca. Nella sua testolina stremata qualcosa s’inceppò: aveva voglia di essere serena, tranquilla, di non dover più scappare ancora e poi ancora…. Voleva non provare più tutta quella paura: voleva non sentirsi più braccata. E in quel momento di debolezza, in quel preciso frangente in cui il suo cuore aveva iniziato a lacrimare, si accorse del gattino: un piccolo batuffolo di peli bianchi che stava cercando riparo dalla pioggia proprio tra i suoi piedi. Senza riflettere più di tanto lo prese e lo fece scivolare tra le lamiere che la ricoprivano come una corazza.
    Il gruppo intanto si era rimesso in viaggio: dovevano attraversare tutta quella città per raggiungere un altro gruppo di sopravvissuti che si era stabilito in un vecchio centro commerciale.
    Erano in molti e ben organizzati, tanto da essere riusciti a coltivare delle piante di patate all’interno della struttura e il clan di Erik, dopo tanto girovagare, aveva davvero bisogno di un posto dove fermarsi a riposare un po’. E di cibo.
    Giada si accodò al gruppo cercando di muoversi il più velocemente possibile, con quel batuffolo strinto al suo cuore che le dette una strana, misteriosa felicità.

    Quando il clan arrivò in prossimità del centro commerciale, sul volto di tutti si dipinse un’espressione di sollievo che scacciò in un attimo la stanchezza e la tensione. Per loro fortuna la pioggia corrosiva era caduta insistentemente per tutto il trasferimento, impedendo così agli animali di uscire dai loro rifugi e attaccarli. Solo quel cavallo aveva sferrato la sua macabra offensiva perendo miseramente, anche se agli occhi degli adulti il messaggio era stato chiaro e inequivocabile: non abbiamo paura, vi stermineremo tutti!

    Il clan di Cesare li accolse con calore dividendo con loro lo spazio e il cibo che erano riusciti a produrre, riuscendo perfino a festeggiare l’evento, portando una strana nota di festa nelle tenebre che da tempo oscuravano le loro tristi vite.
    Quando i più piccoli si furono addormentati e i bagordi della festa dispersi via, gli adulti si riunirono per fare il punto della situazione.
    Il clan di Cesare contava in tutto quarantatré persone, quello di Erik diciotto.
    Del gruppo solo Erik e Cesare si ricordavano di come era il mondo prima: gli altri o erano troppo piccoli al momento dell’apocalisse o erano nati dopo.
    “Speravo foste di più…” sospirò Erik.
    “Già… Quanti animali avete trovato per la strada?”
    “Parecchi! Tutti pronti a sbranarci anche l’anima!” disse Erik con un moto di rabbia nella voce.
    “Digli del cavallo!” suggerì una donna.
    “Maledetto! Un cavallo ci è corso incontro, al galoppo. Non aveva paura, niente di niente! Voleva farci capire qualcosa… voleva dirci che sono pronti a tutto. Che la prossima pioggia non li tratterrà nei loro nascondigli, ma ci salteranno addosso senza pietà!”
    Nel piccolo gruppo serpeggiò una strana sensazione: la speranza si era ridotta a un misero placebo da ingollare con rabbia per arrivare alla fine di un’altra giornata.
    Erik sospirò, Cesare sospirò: avrebbero voluto darsi buone notizie, invece portavano solo messaggi di morte.
    “Si stanno organizzando!” il padre di Giada ruppe quel momento di sconforto. “Stanno preparando qualcosa: nei palazzi ho visto gruppi immensi di animali ammassati nelle stanze… E quel cervo, l’avete visto?”
    “Un cervo?”
    “Sì! E se c’è un cervo probabilmente ci sono anche lupi, cinghiali…orsi…” se possibile le parole accorate dell’uomo aggiunsero ancora angoscia sulla loro disperazione.
    “Ma cosa cazzo vogliono!” urlò una donna minuta e sconvolta che non riusciva a smettere di tremare.
    “Ci vogliono annientare, Tyara! Abbiamo distrutto il loro mondo e loro vogliono distruggere noi”
    Silenzio, interrotto solo dall’incedere costante della pioggia che trivellava il tetto della struttura.
    “Io ho paura!” iniziò a singhiozzare una ragazza cercando riparo nell’abbraccio di un uomo.
    “Tutti abbiamo paura” le sussurrò lui.
    “E invece no!” proruppe Erik “Dobbiamo inventarci qualcosa! Loro sono tanti, incazzati e non so come, si sono uniti, tutti, contro di noi!”
    “Anche i cani?” chiuse una signora.
    “Loro sono stati i primi” disse piano Erik “Erano quelli più vicini a noi e hanno visto dal vivo quello che siamo riusciti a fare. Penso che siano stati i primi a capire. E poi a cambiare”.
    Silenzio, nessuno poteva controbattere: l’ultima guerra atomica aveva spazzato via qualsiasi cosa, distrutto, annientato, azzerato. Solo piccoli gruppi di sopravvissuti vagavano qua e là sulla terra sterile, a volte incontrandosi, a volte sfiorandosi appena per scappare ognuno in direzioni diverse.
    Ed erano passati quasi vent’anni…
    “Papà?”
    Tutti si girarono verso la vocina che arrivò dalle loro spalle.
    “Giada, amore! Cosa fai ancora alzata?” e si diresse verso di lei, fermandosi quasi subito.
    Giada teneva in braccio qualcosa. Di bianco. Peloso.
    Tutti si alzarono di scatto, impauriti.
    “Giada… Cosa hai in braccio?” le parole uscirono lente, strozzate.
    “È un gattino papà. Ha fame. Cosa possiamo dargli?” suo padre si allungò per strappare la diabolica creatura dalle mani di sua figlia, ma Erik lo fermò.
    “Aspetta Sebastian, e se fosse la soluzione?”
    “Cosa…?”
    “E se fosse il modo di ristabilire un rapporto con loro!?”
    A quelle parole nel gruppo serpeggiò un mormorio.
    “Non lascerò che mia figlia faccia da cavia a…”
    “Ma forse è una buona idea Seb,” disse una donna “Guardali, sono due cuccioli!”
    Giada se ne stava in piedi accarezzando il gattino che socchiudeva gli occhi beato al passaggio della piccola manina.
    Nel nuovo silenzio che calò nella sala, squillò una nota di speranza.
    “Potrebbe essere la mossa giusta” sentenziò Cesare.
    “Riavvicinarsi a loro…”
    “Fargli capire che noi, come loro, siamo solo vittime di qualcosa di più grande di noi…” e le parole continuarono a crescere infiammando i cuori di speranza.
    Qualcuno nel mentre portò una scodella di latte in polvere che il gattino stranamente apprezzò.
    “Com’è carino!” sussurrò una donna accarezzandolo.
    “E com’è morbido! Non avevo mai toccato un animale prima!”
    “Proviamo, Seb” sussurrò Erik “Forse tua figlia ci ha mostrato la via giusta da prendere. È inutile fare la guerra agli animali: sono più numerosi, più forti, a breve saremo sopraffatti”
    Seb guardò la figlia e rimase colpito dallo sguardo felice della piccola: era da tempo che non la vedeva così serena.
    “Non lo so…”
    “Proviamo Seb! Se il gatto si comporta stranamente lo faremo fuori. Tutti controlleremo, guarda quanti siamo! Cosa vuoi che ci faccia un piccolo batuffolo di pelo?” Sebastian guardò un po' tutti vedendo nei loro occhi la strana sfumatura che a volte può prendere la speranza.
    “Proviamo…” sentenziò e tra i presenti veleggiò un sospiro di sollievo.

    L’alba penetrò la coltre di nubi regalando un altro giorno fosco.
    Sebastian si svegliò presto e andò subito nella stanza dove dormivano le bambine: il suo urlo svegliò tutti.
    Le tre bambine erano sdraiate scompostamente nei loro letti con gli arti rigidi in posizioni innaturali, mentre il sangue colava ancora dalle pareti candide. Giada era rivolta verso la porta e accolse il padre con un’eterna espressione di sorpresa. Tutt’e tre le bambine avevano la gola squarciata.
    Prima che la follia annebbiasse del tutto la sua mente, Sebastian ebbe il tempo di vedere il gatto che tranquillamente si leccava le zampe rosse di sangue. Per un attimo i loro sguardi s’incrociarono e nella liquidità dell’occhio felino vide brillare la fredda luce dell’odio. Infinito odio.
    L’animale lo fissò ancora per un attimo, come per accertarsi che l’umano avesse capito; poi con un balzò saltò giù dalla finestra che era riuscito ad aprire.
    Sul vetro, con il sangue delle bambine, il felino aveva scritto qualcosa: le lettere erano incerte, tremolanti, spezzate, ma la parola che Sebastian lesse fu la spinta decisiva che lo gettò nella follia.
    Il gatto aveva scritto sul vetro tre parole: W A R.

    Edited by violaliena - 11/10/2017, 23:17
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    mi sono permessa di incollarlo, è più comodo da leggere :)
     
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    Grazie Viola!
     
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    Due parole sul mio racconto.

    Visto che il mio brano si discosta molto da quello delle mie colleghe, mi sento di scrivere queste righe.

    Essendo digiuna del genere distopico, mi sono informata.
    "Per distopico s'intende la descrizione di una immaginaria società o comunità altamente indesiderabile o spaventosa..."
    "Si identificano due filoni: Totalitarismo, società future in cui il potere dell'autorità pretende di controllare ogni aspetto della vita umana.
    Post apocalittico, rappresenta la distruzione del vivere civile o una sua massima degradazione dovuta a catastrofi globali
    per lo più causate dall'uomo."

    Logicamente ho scelto la seconda traccia.
     
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