Olimpiadi Letterarie

Nausea (Qualcosa color lillà)

Gruppo Quadri - Horror

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    Vessatore di pterodattili

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    Nausea (Qualcosa color lillà)

    “Ho la nausea”. Ron deglutisce. “Una nausea del cazzo”.
    Lo sguardo di Flavio si posa su di lui. “Se è un modo per dire che non te la senti, tornatene indietro”.
    Flavio: cinquant’anni, barbato, brizzolato, fisico forte. Veterano. Nervoso dal primo passo in Montenero.
    “Calma”. Tore: trentadue, barbaccia nera incolta. “Calma tutti”. Chewing-gum fatto danzare tra i denti.
    Nausea.
    “È questo posto. Ci sta facendo uscire di testa”.
    “Allora torniamo, no?”.
    “Io non torno”, Flavio indica oltre, “Si è detto fino al sanctum: e io lì arrivo, con o senza di voi”.
    “Calma”.
    Buio opprimente, luci montate sugli elmetti a vagare intorno. Un’ombra, di tanto in tanto, sembra allungarsi e svanire tra loro. “I faretti che ci puntiamo addosso a vicenda”, Tore minimizza.
    Stella è l’unica a non parlare. L’unica a fissare il vuoto, i capelli chiari raccolti sotto l’elmetto. Bocca asciutta. Vago senso di nausea.
    Flavio si volta, brusco, uno strattone alle cinghie dello zaino: s’incammina nell’ultimo tratto.
    “È questa luce”. Ron: trentotto, scuro di pelo, occhiali. “Questa luce del cazzo!”.
    Luce: lucore. Da parecchio ormai le pareti, le stalagmiti, le venature del basalto sembrano splendere di una qualche forma di bagliore, vacuo, violaceo; tanto soffuso da essere appena percettibile e assieme fastidioso. Qualcosa che permea la roccia.
    Qualcosa color lillà.
    Lui sfrega gli occhi, sbatte le palpebre. Il bagliore è sempre lì.
    “Calma”.
    Ron ha un moto di stizza. “Cos’è che devi dimostrare, ah?! Che arrivi fino in fondo a Montenero? Che la fai in barba all’istituto?!”.
    Flavio si ferma. Si volta. “Una cosa personale”, il suo tono è calmo, lo sguardo no. “Ve l’ho detto prima di partire: una cosa personale”.
    “Calma”.
    Un’ombra più lunga scorre lungo le loro figure in tuta arancio fluo.
    “Dai, su”, Stella rompe il silenzio, scuote il compagno, “Siamo vicini. Arriviamo al sanctum e torniamo indietro”: il suo sguardo è per Flavio, lui non lo accoglie; si volta, riprende il cammino, scarponi sulla pietra sconnessa.
    Lenti, gli altri tre seguono. Intorno la grotta riluce di un color lillà talmente flebile da sembrare immaginario.
    Stella non parla più: ha un vago senso di nausea.

    “Dio”.
    Il sanctum di Montenero è deludente: niente pinnacoli, niente costruzioni calcaree, niente cattedrali di roccia; solo una selva di fenditure e una grande colonna in centro.
    Acqua corrente ruscella da qualche parte nell’oscurità.
    “Pensavo di più”, Tore sorride, per coprire l’amarezza.
    “Bella merda, sì”.
    “Forse è un segno”, Stella deglutisce, “Tanta fatica per poco risultato”. Sorride, forzata, scatta un paio di foto con la Reflex.
    Nausea.
    “Flavio?”.
    “Oi, Flavio”.
    Silenzio.
    Luci bianche fendono l’oscurità e vagano intorno: la caverna è ampia, più del colpo d’occhio.
    “Flavio!”.
    Inspirare sordo. “Ma lo sentite? L’odore!”.
    Narici fremono.
    “Che è?”.
    “Cos’è questo odore del cazzo?!”.
    Un aroma dolciastro, pesante, affluisce in refoli portato dalle correnti della grotta.
    “Muffa?”.
    Passi si muovono incerti, vagano oltre la grande colonna di calcare che copre parte della visuale: il chiarore, poco oltre, delinea la figura di Flavio, chino.
    “Ma che è?”.
    Qualcosa sul pavimento, disteso. Devono avvicinarsi perché i faretti imbianchino la figura supina.
    “Cristosanto”.
    Un corpo, marcio: la carne scurita dalla putrescenza si è aperta in bolle piene di liquido.
    Stella copre la bocca, incredula, Tore guarda impietrito, il chewing-gum roteato tra i denti.
    “L’odore”, Ron si scosta, ansima, “Cristo, l’odore”.
    Tanfo di decomposizione.
    L’unico a non agitarsi è Flavio. Flavio osserva, muove le iridi ma non si scompone. “Non è Beatrice”, mormora, “Queste non sono le scarpe di Beatrice”, tocca le Converse bianche e sporche rimaste ai piedi della salma, “Lei le ha blu! Blu!”.
    Occhiate furiose.
    “Cos’è questa storia?”.
    Flavio si alza, ignora, punta la luce dell’elmetto intorno.
    “Che significa? Chi è Beatrice?”.
    “Una cosa personale”.
    Ron raschia la gola, si china a terra. Nausea. Qualcosa si muove nell’esofago e chiede di uscire: lui ricaccia tutto a fondo con una serie di respiri profondi; l’odore, dolciastro, rimane nel naso. Un’ombra gli passa sopra, per lungo.
    “Cos’è questa storia?! Ci spieghi?!”.
    Flavio si volta, rabbioso: i suoi occhi sono lucidi e dilatati. “Mia figlia. Due mesi fa, scomparsa nel nulla, ma io lo so che è quaggiù, lo so!, capisci?!”.
    “Come lo sai?!”.
    “Lo so!”.
    “Perché non ci hai detto nulla?!”.
    Silenzio. La caverna riecheggia le voci. Intorno il lucore lilla sembra aumentato di un tono.
    Stella si china nonostante l’orrore, allunga una mano sul cadavere sfatto: smuove l’oggetto incastrato nella gola.
    “Era con tre amiche. Sparite a Boscorosso, nel nulla: quattro liceali possono sparire nel nulla?! Io gliel’ho detto: cercate nella grotta!, è figlia di uno speleologo!, e mi hanno detto di sì, che hanno cercato, ma la verità è che nessuno ci vuol scendere qui! E Bea me l’hanno lasciata in questo buco, per due mesi! BEA!”. Mani a conca e vene del collo turgide. “BEA!”.
    Eco rifratta.
    “Calma, accidenti”.
    Flavio non si calma; torna eretto, inizia a vagare chiamando Bea, gli risponde solo la grotta.
    Stella estrae dalla gola marcia della ragazza una bic: uccisa con una penna. Ammazzata con una penna.
    Un assalto di nausea.
    Nausea.
    Ron tiene il dorso della mano sulle labbra: è chino sull’acqua di un fiumiciattolo sotterraneo. L’odore non va via dalle narici, anzi è forte, più di prima. Sta per rialzarsi quando si accorge che il rivolo lo guarda di rimando, lo osserva con occhi di donna vuoti. Arretra con un verso, attonito: un secondo corpo marcio oscilla sommerso in mezzo metro d’acqua, capelli sciolti come tentacoli di medusa. Ai piedi ha ancora due scarpe rosa shocking.
    Ron ama la pesca. Più che speleologo è pescatore. Una liceale pallida e per metà decomposta oscilla al tocco gelido della corrente, e lui potrebbe pescarla, aprirla col coltellaccio e sfilettarla. Portarla al banco della pescheria.
    Un pensiero senza senso che pure lo conquista.
    Nausea.
    Stomaco in insurrezione.
    Conato.
    “BEA!”. Flavio si sposta lungo la parete di roccia, lì dove il lucore violaceo è più intenso; Tore cerca di trattenerlo, di spiegargli che Bea non può essere sopravvissuta due mesi là sotto. S’interrompe quando nota che il lucore sulle pareti ha qualcosa di familiare; lascia il collega per avvicinarsi di più, protendersi verso la parete, fare ombra con una mano perché la luce forte dell’elmetto non impedisca la visuale.
    Stella continua a guardare il corpo, i corpi; non si muore per caso con una penna cacciata nel collo, è evidente che sono state uccise, entrambe, e se ne mancano due all’appello saranno state ammazzate anche loro. Stella è più detective di CSI che speleologa, e sa perfettamente come vanno queste cose. Chi uccide delle liceali che per ragazzata entrano a Montenero?
    Un’ombra le passa per traverso.
    Un maniaco, un killer. La grotta ospita un killer. Un assassino seriale di giovani donne, e Stella sa che la prossima sarà lei: spegne la luce, getta l’elmetto, poi arretra verso l’oscurità. Si accorge con orrore di aver indosso la tuta arancio fluo, lui la vedrà di sicuro: l’unica soluzione è toglierla, mimetizzarsi con l’ambiente.
    Stella inizia a spogliarsi, febbrile, il cuore a mille.
    L’orrore di una penna cacciata in gola.
    Nausea.
    “BEA!”.
    Ron si è buttato nel ruscello gelido e smanaccia il cadavere cercando di portarlo sulle rocce: carne marcia gli si scioglie, come gelatina, tra le dita. Il volto della morta, per metà scavato all’osso, oscilla come il capo d’una marionetta.
    Nausea.
    È come andare a pesca, come prendere i siluri nel Po: devi tenerli, son grossi.
    Il fetore della decomposizione è asfissiante, dà alla testa.
    Conato.
    Nausea furibonda.
    Vomito.
    “BEA!”.
    Tore sta guardando la fonte del lucore color lillà: le venature del calcare, gli anfratti, le spaccature delle pietre sono tutte piene di piccoli funghi fluorescenti, di un colore violaceo e malato.
    “Ma certo”, gli sfugge un sorriso al sapor di spearmint, “Bioluminescenza!”. Col coltellino ne scava fuori tre-quattro, li regge nel palmo: sono piccoli, cappelluti, lilla con bitorzoli lime. E brillano, spandono una luce aliena meravigliosa. Per Tore, una scoperta che vale la discesa a Montenero.
    Ha sempre amato i funghi, Tore, suo nonno faceva il sugo di porcino, sua nonna il fritto. Da morirci. Da mangiarne a scoppiare.
    Un’ombra passa di traverso.
    Lui sputa la cicca e li caccia in bocca tutti, poi si avventa a scavarne altri. Mastica furioso, Tore, funghi che sanno di verderame. Di gomma bruciata.
    Nausea.
    Altri funghi ingoiati a forza, pezzi sbrodolano addosso con la saliva che ora ha lo stesso colore lillà della luce.
    Nausea.
    Conato.
    “BEA!”.
    Non mi troverà qui, no, Stella preme la schiena nuda contro la colonna tortile di calcare: ha gli occhi dilatati e i denti stretti, il cuore che martella.
    La luce!
    È nell’oscurità completa ma ancora la si vede, ancora c’è luce: fottuta bioluminescenza!
    Lui sta arrivando: un’ombra passa lenta. Stella è sulle punte dei piedi nudi, schiacciata come ad aderire contro la parete. Sta arrivando. Le taglierà la gola.
    Respiri impazziti.
    Stella ha ancora in mano la penna tolta dal collo del cadavere, la stringe così forte da far male.
    L’idea è assurda ma logica: poggia la bic contro la trachea.
    Se me la taglio io, non lo potrà fare lui.
    Un sorriso insano.
    Un affondo secco.
    Nausea.
    “BEA!”.
    Ron è in ginocchio nella corrente fredda che ora ha assunto un brutto color bile. L’ultimo conato ha ostruito la laringe: Ron, iridi sgranate, si accascia nell’acqua accanto a un corpo sfatto di adolescente.
    “BEA!”.
    Tore rigurgita di continuo pure non riesce a smettere di ingozzarsi. Fritto di funghi. Sugo.
    Nausea.
    Poggia le mani sul pavimento freddo, fissa il vuoto con allucinazioni di cene natalizie e coiti tra cani. Accanto a lui, nascosto nell’ombra di un piccolo fosso, c’è un corpo di ragazza chino e gonfio, morto mangiando la luce color lillà.
    Il cuore si ferma di scatto.
    “BEA!”.
    Flavio vaga nelle propaggini della grotta, puntando il fascio luminoso intorno. Un’ombra passa alla sua destra.
    Ha un vago senso di nausea.
    Il suo occhio esperto discerne, controluce, il brillio di qualcosa che è nell’aria, qualcosa che permea tutto il sanctum e anche prima. Qualcosa color lillà.
    Bioluminescenza.
    L’aria è piena di spore. Spore che hanno respirato per tutto quel tempo. Spore allucinogene.
    Nausea.
    Un suono lo obbliga a voltarsi, un lucore più intenso.
    La cosa che striscia fuori dalle ombre è un incubo contorto, un essere che arranca su gambe esili, la pelle talmente tirata da vedersi al di sotto. Un essere che pulsa di luce color lillà, la testa oblunga, a forma di cappello, piena di bitorzoli verde lime.
    Spore.
    Ai piedi ha ancora due scarpe blu.
    “BEA!”.
    Allucinogene.
    Flavio sorride, sollevato, ma è solo un istante: ricorda in quel preciso momento di non aver mai avuto figli.
    Una nube di spore lo avvolge.
    Nausea.

    ***



    Edited by Fante Scelto - 11/10/2017, 23:53
     
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    Alla faccia Fante!
    Sei stato davvero impressionante!
    Il racconto scorre via con una disinvoltura estrema inciampando ogni volta nelle tappe obbligate che ci fai fare di fronte all'orrore di quella grotta.
    Un inciampo che in realtà è uno sbattere violentemente il lettore di fronte a scene raccapriccianti.
    Mi piace come sei riuscito a caratterizzare ogni personaggio, ogni sua follia.
    Azzeccata inoltre la nausea che pervade la storia.
    Inquietante l'atmosfera e la suspence della narrazione.
    Un'ottima prova!
     
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2 replies since 11/10/2017, 22:47   39 views
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