Olimpiadi Letterarie

All'ombra della roccia rossa

Sfida IV - genere Western

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  1. Giovievan
     
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    Devo andare avanti.
    Arranco, trascinando la gamba ferita. Il sole mi picchia in testa, sono certo che impazzirò se non trovo dell’acqua o un po’ d’ombra. L’unica acqua che ho con me mi serve per sopravvivere, versarmela in testa sarebbe un’idea del cazzo.
    Ho perso il cappello. Mi viene da ridere se penso che, nella vita, non ho mai desiderato nulla quanto desidero in questo momento un dannato cappello. Persino la gola rovente passa in secondo piano.
    Il vento si sta alzando, inizia a ululare feroce tutt’attorno come le iene che mi attendono se oso accasciarmi. Mi viene da imprecare. Se solo quello stronzo di John mi avesse dato retta…
    Figlio di troia, se l’è meritato.
    In questo momento la rabbia che provo sovrasta persino il dolore di aver perso i miei compagni. John, quel maledetto idiota di John, e Ian, che forse non aveva nemmeno sedici anni.
    Cibo per corvi.
    Non posso nemmeno cedere loro tutta la colpa. Mentre avanzo, barcollo, quasi cado in ginocchio, sento di farmi schifo da solo per aver accettato di seguirlo.
    Maledetto stronzo!
    L’ultimo passo mi è insopportabile. Sento una fitta al ginocchio così potente che mi acceca e, senza nemmeno accorgermene, crollo sulla terra bruciata, sull’unico ginocchio buono che mi resta. Rimango così, piegato, osservando il sudore crollare a gocce sulla terra cotta dal sole. Forse avrei una speranza, se solo avessi la minima idea di dove sto andando.
    Serro gli occhi, trattengo le lacrime. Non ci posso credere, non posso credere di dover morire così.
    Quando alzo lo sguardo, però, qualcosa si dipinge dinnanzi ai miei occhi e, per un attimo, credo che non tutto sia perduto.
    La prima cosa che noto è l’ombra. L’enorme rupe di pietra rossa la proietta dinnanzi a sé senza pietà, ed è così grossa ed estesa che sembra inghiottire tutto ciò che si ritrova davanti. Tutto, compresi i resti di quello che probabilmente era un piccolo accampamento.
    Non ho mai provato nella mia vita la gioia che provo nel vedere delle capanne di merda e i resti di un pietoso focolare, ma ciò che più mi eccita deve essere lì accanto: i pellerossa non costruiscono mai lontano da corsi d’acqua. E io, in questo momento, ho bisogno d’acqua.
    Improvvisamente il ginocchio sembra dolermi meno che mai. Zoppico, mi avvento verso quell’ombra pregando che mi inghiotta. Per un attimo la razionalità mi suggerisce che potrebbe essere pericoloso, che potrebbe esserci chiunque nascosto dietro la roccia o dentro le capanne proprio in attesa di qualche povero idiota come me, ma in questo momento non ascolto la razionalità. Il focolare è spento, le capanne sono vecchie, logore e, pare, vuote. Mi convinco che il villaggio sia abbandonato.
    Mentre corro – o meglio, zoppico incespicando – la mia mente riesce persino a darsi una spiegazione. I guerrieri Shanka in ricognizione che si sono spinti fino alla valle devono pur essersi accampati diverse volte, prima di giungere dove li abbiamo trovati. Quello deve essere uno dei loro villaggi.
    Metto piede nell’ombra e non mi par vero di aver trovato un riparo.

    *



    «Ho visto qualcosa», disse John.
    Finsi di non essere interessato, ma dentro di me stavo ribollendo di curiosità.
    «Cosa avresti visto?»
    «Una colonna di fumo. Guarda.»
    Nel buio della notte, in lontananza, si alzava effettivamente un rigagnolo grigio. Gli ultimi ansiti di un fuoco spento da poco. Un grave errore, ma del resto non sapevano che eravamo lì.
    «E quindi? Che vorresti fare?»
    «Sei proprio un vecchio idiota, Shane» mi sputò, tra i denti. «Come “che vorrei fare”? Sveglia Ian e andiamo.»
    «Ti sei bevuto il cervello?» ringhiai, sottovoce, per non svegliare gli altri. «Noi tre contro chissà quanti pellerossa? Al buio?»
    «Con le tenebre abbiamo la sorpresa dalla nostra. Loro non sanno che stiamo arrivando. E hai capito che succede se prendiamo da soli Grande Aquila?»
    Certo che lo avevo capito. Dei cinquecentomila dollari che pendevano sul suo cranio me ne sarebbero toccati centosessantasettemila se l’avessimo preso in tre, contro i trentatremila se l’agguato fosse stato compiuto dall’intera banda. Ma se eravamo partiti in quindici, un motivo c’era. Titubai.
    «Non sappiamo quanti sono. E se fossero decine? Ci schiaccerebbero come delle dannate mosche.»
    «E se fossero in venti, come previsto?»
    Le sue parole si insinuavano nel mio cervello, inebriandolo. In effetti dalle ricognizioni non emergevano che meno di una decina di tende e un solo focolare. Era impossibile che fossero più di una trentina, a voler essere generosi. Ma non dovevo farmi convincere, non dovevo.
    «Tu non sai quello che dici. Anche se fossero venti, noi siamo in tre. Come credi di sopraffarli?»
    John si portò una mano al fianco, sfiorando il calcio del suo fucile. Mi sorrise dietro i folti baffi, annuendo. Porca miseria, sì che si poteva fare.
    «Se riportiamo Aquila Nera e suo figlio a Westfort, oltre al denaro ci attende la gloria. “I salvatori dei raccolti”, oppure “Coloro che decapitarono l’Aquila”. Già ce li vedo, i titoli tutti per noi. E forse potremo permetterci di più di quelle fetide bettole in cui viviamo.»
    Era vero. Il solo pensiero di ritornare in quella casa infestata da insetti mi raccapricciava. Avrei mille volte preferito passare la mia esistenza a raccogliere criminali per i boschi piuttosto che tornare. Neanche Melany sarebbe stata un buon motivo per far ritorno; non avrei in ogni caso potuto offrirle una vita dignitosa, e non ero così stupido da farci un figlio, come aveva fatto John, solo per poi portarmelo dietro come un cane per imparare l’arte di tagliare gole.
    Scossi il capo, ma con poca convinzione. Ormai, nel mio cuore, avevo già deciso cosa fare.


    *



    Ho trovato il ruscello poco lontano ed ho tuffato la testa in acqua sentendomi rinascere. Ho bevuto, contro ogni buon senso. Preferisco morire intossicato dall’acqua di un fiume infetto che morire di sete.
    Quando alzo la testa, con l’acqua che mi cola lungo le guance, apro gli occhi e guardo lontano, verso le capanne.
    Ormai sono certo che siano vuote e che questo piccolo accampamento non mi riserverà alcun pericolo. Se ci fosse stato qualcosa da temere, probabilmente non sarei qui a pensarci. Eppure, mi dico, potrebbero tornarmi utili; quei selvaggi potrebbero aver lasciato qualcosa all’interno, e fosse anche un pugnale, in questo momento mi andrebbe bene.
    Avanzo verso le capanne, guardandomi intorno. Come avevo notato, c’è il resto di un focolare al centro del piccolo villaggio, e le tende – otto, per la precisione – intrecciate con rami e coperte da foglie, lo circondano a semicerchio. Tutt’attorno al fuoco ci sono piccole ossa e qualche teschio di animale.
    A occhio e croce devo esser lontano una decina di chilometri dalle prime fattorie. Forse di più, considerando quanto ho camminato dal momento dell’incontro. È risaputo che, quando non possono razziare i beni altrui, persino gli Shanka debbano mettersi a cacciare.
    Mi chino sul focolare, smuovendo la cenere. Spero di trovarci qualcosa di utile, magari un boccone caduto nel fuoco, ma non trovo nulla. Allora mi volto e mi dirigo verso le capanne.
    All’interno sono quasi più misere che all’esterno, totalmente vuote, con un giaciglio di foglie ammassato in un angolo. Nella prima non trovo nulla di utile. Nella seconda trovo una punta di freccia scheggiata, gettata via perché probabilmente ritenuta inutile o perduta. Una grandissima scoperta.
    Nella terza trovo una donna.

    *



    La notte era buia, più del previsto. Ci avviammo verso l’accampamento, io, John e il giovane Ian, armati dei nostri fucili e con il colpo già in canna. La rivoltella che mi pendeva al fianco mi dava una sicurezza incredibile, sprezzante.
    Lasciammo i cavalli legati a uno degli ultimi alberi e proseguimmo a piedi, tentando di non far rumore. Da lontano riuscivamo persino a vedere le braci del fuoco che si stava spegnendo, e la colonna di fumo si rivelava più grossa di quanto pareva da lontano.
    In silenzio, senza dire nulla, ci avvicinammo all’accampamento con il tacito accordo di sparare a chiunque si ponesse sulla nostra strada. Quando stavamo per avvicinarci, però, capimmo che era stato un errore.
    Ci piombarono addosso da ogni angolo. Il buio ne celava il numero, ma a me parve fossero centinaia.
    Il primo a cadere fu Ian, col petto trapassato da un bastone – probabilmente una lancia. Il fucile gli scivolò dalle mani, ancora freddo. Non aveva avuto neanche il tempo di sparare.
    Io e John sparammo qualche colpo alla cieca, e mi sembrò che il rumore dello sparo venisse addirittura coperto dalle loro urla animalesche. Qualcosa di duro e possente mi colpì al ginocchio, qualcos’altro mi sfiorò a spalla volando oltre. Capii che non avevo altra scelta se non gettarmi a terra e sperare che il buio mi aiutasse.
    Mi parvero ore, quelle che passai piegato sulla terra nera. Li sentii frugare tra i nostri corpi. Nemmeno quando se ne andarono ebbi il coraggio di muovermi. Mi alzai solo quando sorse il sole e mi accorsi che il villaggio era stato abbandonato, come tanti altri prima di quello.
    Iniziai a camminare.


    *



    La donna non si muove. È a terra, stesa in una pozza del suo stesso sangue ormai secco, che ha impregnato il giaciglio fino a farlo diventare nero.
    Mi guarda, ma non so se mi veda. Capisco che è viva solo perché il suo petto si contrae in modo spasmodico.
    Se ci fosse stata una trappola non sarei arrivato qui.
    Mi piego accanto a lei, tremando. Non ho idea di cosa fare, vorrei aiutarla, ma come posso?
    Lei volta il capo e incontro i suoi occhi neri, incastrati in un volto dalla tipica bellezza Shanka. Le sue labbra vibrano, mi sussurra qualcosa, ma ovviamente non comprendo la sua lingua.
    La guardo, guardo il sangue che le circonda il ventre e una coperta intrisa di rosso che a malapena la copre per metà. Capisco. L’hanno lasciata qui a morire dopo averle portato via tutto, compreso il bambino a cui ha dato la vita.
    Non so se sia stata una scelta semplice o sofferta. Non so se sarebbe stato possibile per loro trasportarla, o se lei si sarebbe mai ripresa. Forse sono stati costretti. Forse è stata lei a chiederlo.
    Mentre lei si spegne la sento sussurrare ripetutamente qualcosa, tra i tremiti febbricitanti. Penso sia un nome. Shakur. Le prometto, silenziosamente, che mi ricorderò di lui.
    Shakur. Mi rialzo, zoppicando, ed ho paura di ciò che penso. Quei selvaggi non mi sono mai parsi tanto uomini prima d’ora.
    Esco dalla tenda. Il sole è alto in cielo, ma mezzogiorno è passato, mi indica l’ovest. Westfort è troppo lontana perché io riesca a raggiungerla nelle mie condizioni, ma il pensiero di Melany mi dà la forza di avanzare.
     
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