Olimpiadi Letterarie

La pietà di Criso

Brano d+q

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  1. Flora*
     
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    LA PIETA' DI CRISO


    Il cantico del vespro chiude il ciclo dei riti: è sera. Tra poco sarà notte, e inizierà il mio turno.
    Attendo sulla terrazza dell’ospedale: la città s’avvia a chiudere i battenti e accendere le fiaccole d’illuminazione.
    Ho paura.
    Da quando sono qui, da quando mi hanno dato mansione all’ospedale di Acri, ho paura, paura della notte, del buio. Sei giovane, mi dicono le altre dame di carità, ti abituerai. Prego Dio.
    Passi sulla scala tintinnano d’acciaio: osservo con sollievo l’apparire di Criso; è giovane ma il suo sguardo infonde sicurezza, come il volto forte barbato di biondo, la sua buona altezza, così l’armatura e la cotta di maglia, la spada che porta al fianco. Più di tutto la croce bianca sulla tunica nera che gli copre il petto.
    Non è di molte parole ma l’unico della guarnigione degli Ospitalieri a essersi mai curato di me.
    Saluta nel suo modo abbozzato, si guarda attorno, accenna col capo. «Vi vedo turbata».
    «È la notte», sorrido timida, «M’inquieta».
    Le prima grida e le risa echeggiano dall’edificio principale: Criso non da alcun segno di notarlo.
    «Come fate?», domando di slancio, «Come sopportate questi suoni maledetti, tutte le sere, come fate a non desiderare d’essere altrove?».
    Lui batte lento le palpebre, nei suoi occhi chiari si muove una qualche forma d’empatia. «Dio guida i miei passi: non ho timori».
    «Oh, invidio la vostra sicurezza, davvero», scuoto il capo guardando Acri eclissarsi nel buio incipiente, «Per me è un incubo: prego sempre il Signore di evitarmi il turno alla notte, ma pare che Egli non ascolti la mia prece»
    «Probabilmente vuole da voi qualcosa di più».
    «Che intendete?».
    Lo guardo avvicinarsi, il passo dei suoi calzari sul legno è echeggiato dal tintinnare della spada contro il gambale. Siamo vicini, in un modo che mi preoccupa e compiace assieme.
    «Forse Egli vuole che diventiate più forte, Gemma, che impariate a guardare in volto il Male e a non averne più timore».
    «Dite?», mi sfugge una risatina nervosa mentre massaggio le braccia infreddolite, ora che la temperatura cala di minuto in minuto; il suo gesto di sollevare la mantella nera e coprirmi le spalle riscalda il corpo e anche il cuore. Lo guardo a disagio, indecisa se leggere in quell’atto qualcosa più che mera compassione.
    Le grida dal complesso dell’ospedale si ripetono, penetranti, stridule, paiono artigli sull’anima.
    «Mi sembra di impazzire anch’io a sentirli», mormoro.
    «La notte è il loro regno: essi non appartengono a questo mondo, non più». Sfiora la croce sulla tunica in un gesto devozionale. «Coloro che perdono il senno appartengono al Demonio, si sono allontanati dalla luce di Dio. Li rinchiudiamo qui perché non siano d’offesa ai devoti, e questo li infuria, poiché è nella loro natura tentare di corrompere ciò che è puro: la notte essi bramano di uscire e vagare per le terre infettandole col seme della pazzia».
    Un brivido mi attraversa mentre osservo il vuoto, nella mente immagini grottesche di quei sorrisi tirati, quelle labbra screpolate, quelle iridi vitree, che vedute alla luce del giorno sono spaventose, ma di notte sono incubi terreni.
    Le grida scemano e poi si rialzano: il coprifuoco spegne le ali più esterne dell’edificio ospedaliero.
    «Mi è stato insegnato», biascico, «A compatire le assurdità di queste persone, a offrire loro pietà e comprensione, poiché questo è il volere di Dio verso i suoi figli meno fortunati: ma è così difficile!».
    «La pietà è una grande virtù, l’unica che queste anime ancora meritino. Ma occorre saperla amministrare nel modo corretto: io lo conosco perché il Signore ha voluto così. Il mio è un dono, un talento di Dio, per questo non temo né m’impressionano le loro risa e versi».
    «Davvero?», lo guardo meravigliata, «Possedete un dono?».
    Criso prende un respiro, esita, vaga lo sguardo alla linea degli edifici oscurati. «Raggiungetemi alla mezzanotte nell’ultimo corridoio dell’ala ovest. Vi mostrerò».
    Sorrido, estasiata, mentre il cavaliere si scosta con un cenno cortese di commiato, e poco importa se il freddo mi assale nuovamente. Sapevo che egli è una persona speciale, ma non potevo immaginare fino a qual punto. Rimango a guardare Acri ancora per breve.

    Mezzanotte.
    L’ala ovest è buia, tetra. Gli schiamazzi sono calati ma non cessano mai del tutto, intervallati a brevi silenzi che rinfocolano solo l’inquietudine.
    Vago nelle anticamere fingendo di rassettare i ripostigli: ho inventato questa scusa con la superiora per potermi trovare lì alla mezzanotte.
    Passi tintinnanti giungono e il cuore mi si rischiara: Criso cammina nella penombra con la sicurezza dei giusti. Lo raggiungo sollevata; egli accenna appena, senza tradire qualsiasi forma d’interesse provi nei miei confronti.
    «Istruitemi, vi prego», scandisco col cuore che batte.
    «Venite».
    Fa strada, aprendo con le chiavi il portone di legno massiccio e raccogliendo una fiaccola dalla parete: nessuna di noi può entrare nell’ospizio senza almeno una guardia, e l’attimo nel quale il portale si apre è un tuffo al cuore che già batte forte.
    Entriamo in quel corridoio che conduce, più avanti, alle stanze dei folli. Ho paura, una paura dannata, ma la sua presenza mi rincuora. Richiudiamo dietro di noi e procediamo nel passaggio: i versi acuiscono in una torbida cacofonia.
    Criso non trema, non ha il batticuore, neppure sembra importargli del luogo terribile nel quale camminiamo; alcuni folli giacciono addormentati nel buio completo delle camerate, altri invece siedono nel corridoio e alzano occhi vacui quando il chiarore della fiaccola li illumina. Sono uomini e donne, alcuni giovani altri meno, e al tempo stesso sono qualcosa di diverso. Mi stringo contro il braccio del cavaliere sentendo il coraggio venir meno.
    Quando ci fermiamo, Criso lascia a me la torcia.
    Lo osservo accostarsi a un ragazzo che avrà la mia età: gli parla con dolcezza, cose che non intendo appieno nel suo bisbigliare, nei grugniti che l’altro emette, toccandosi la testa in movimenti dei quali non è padrone. Poi Criso gli impone le mani guantate ai lati del viso, gentile, e il ragazzo si quieta. Si quieta al punto da sembrare assonnato, ed egli lo aiuta a sedersi, con la schiena al muro e lo saluta in un sussurro.
    Incredula, trattengo un riso emozionato: lo ha quietato, lo ha reso placido e dormiente, spezzando la malia che il Demonio ha su di lui.
    Il cavaliere mi osserva.
    Sceglie un altro, un vecchio ospite che parla da solo e racconta degli orrori visti a Giaffa dopo la conquista dei Musulmani. Criso gli parla, lo accarezza, gli cinge il capo: ed egli si quieta, s’assopisce e smette di parlare.
    «Siete un santo», mormoro attonita, meravigliata, «Un santo! Benedetto da Dio!», e in quel momento, lì, nell’orrore dell’ala ovest, con lui al fianco, non sento più la paura.
    Criso ripete il suo miracolo una terza e poi una quarta volta. Sono al cospetto di un uomo portatore della misericordia divina, un eletto. Un santo.
    L’ultima è una donna dall’aspetto emaciato: il rantolo che emette nel quietarsi, sola nella sua stanza vuota, assomiglia invece a qualcosa che ho già udito, al lazzaretto di Naplusa, da piccola. Ricorda il verso che i moribondi fanno quando spirano.
    «Criso», domando con voce di colpo incerta, «Non state facendo loro del male in qualche modo?».
    «Del male?», il suo sorriso è freddo. «Un servo di Dio non opera mai nel Male».
    Mi sovviene un ricordo: si dice che ad Acri i folli spirino solo nel sonno. Che muoiano da sé quando Iddio li chiama, e al mattino qualche corpo pallido viene portato fuori dagli inservienti e sepolto.
    «Criso, voi…», mi accosto, di colpo agitata, cerco di prendergli la mano ma lui ritrae la sinistra, brusco.
    «State attenta», mormora guardandosi il guanto.
    «…voi togliete loro la vita!».
    «La pietà del Signore si amministra in molti modi: io sono solo un Suo pio servo».
    Sento freddo. La luce della fiaccola illumina quella sua mano che consideravo santa: legato al dito medio scorgo qualcosa che assomiglia a un ago, di certo intinto nel veleno.
    «Io… io non credo che Dio voglia questo, perdonatemi».
    Paura.
    Fredda, vibrante paura: soli nella stanza semibuia di una donna folle che ora so giacere morta sul pavimento.
    «Dio mi parla, sapete?», Criso scruta con occhi che mi paiono terribili, «Lui mi ha chiesto di liberare queste povere anime dalla possessione».
    «Voi siete un Ospitaliere!», mi ascolto pronunciare con voce stridula, «Il vostro voto è salvare gli infermi, non terminarli!». Porto una mano alla bocca realizzando l’orrore insito in quella contraddizione. «Voi non siete un santo!».
    I suoi tratti s’increspano, tetri. «Dio agisce tramite la mia mano, Gemma. Disapprovare me è disapprovare Dio. E questo è blasfemia».
    La mano mi trema nel reggere la fiaccola. Una parte di me vorrebbe ascoltarlo, approvare la sua pietà verso quegli sfortunati che giacciono oltre l’umana salvazione; un’altra ha orrore di quel concetto alieno a quanto mi è sempre stato insegnato.
    Nel danzare della fiamma il suo volto non mi appare così diverso da quello dei folli che ora gridano e berciano più forte nelle altre stanze.
    «Posso comprendere che, nell’ingenuità della fanciulla che siete, alcune logiche vi paiano incomprensibili. Tuttavia ci sono molti e differenti modi per fare il volere del Signore».
    Oramai sussurra e quel flebile sibilo, strozzato dal fitto brusio e dalle improvvise grida di sofferenza che ci circondano, mi risulta difficile da udire. Non rispondo. Scuote il capo.
    «Se siete qui non è un caso. Voi, Gemma, siete l’unica a sapere, e c’è un motivo per cui vi ho condotto in questo luogo e mostrato tutto questo.»
    Le membra mi si irrigidiscono ma, nei profondi recessi del mio animo, percepisco un nuovo sollievo farsi strada. Qualsiasi cosa desideri ora costui, pare quantomeno scongiurato il mio maggior timore, ovvero che, ora che so, quest’uomo possa decidere da un momento all’altro di liberarsi di me per non incorrere in rischi. Del resto adesso ne conosco le abitudini da vile assassino, e ho mostrato remore alla sua rivelazione. Forse che fosse tutto previsto, e l’epilogo già scritto, nel bene o nel male? Mi rendo conto con orrore d’aver fallato. Ho riflettuto poco, prima di parlare. Avrei dovuto porre più attenzione alle mie parole, ed è ciò che farò d’ora in poi.
    «Voi siete una donna pia» esordisce egli, mentre la luce della fiaccola risplende nei suoi vitrei occhi restituendo al mondo uno sguardo di fiamma, lo sguardo di Lucifero. «Voi siete pura d’animo. Dio vi assiste e vi ha accolta tra le sue compassionevoli braccia come non ha fatto con costoro, che il Demonio ha corrotto abilmente fino a rendere vuoti d’ogni bene. Voi dovete aiutarmi, Gemma.»
    «Come posso io aiutarvi? Io che temo persino il pensiero di questo luogo tetro?»
    «Condividevo il vostro timore, ma Dio mi ha mostrato il coraggio facendomi carico di questo triste e doveroso compito. Gli uomini non possono comprendere la grandezza del Suo volere. È così che potete aiutarmi, Gemma: m’è stato riferito del dubbio che qualcuno s’aggiri in queste segrete a seminar morte. La Madre Superiora ha fatto disporre le truppe della guarnigione affinché controllino il circondario per scongiurare la presenza di qualche estraneo visitatore che agisca nell’ombra. Non potrò più operare il volere di Dio, non più finché le ronde non si sciolgono. Credevo fosse tutto perduto, ma il Signore ha udito le mie preghiere e mi ha mandato un segno della Sua grandezza. Voi, Gemma. Voi dovete aiutarmi. Me e Colui che ha scelto di darmi questo fardello.»
    Nuovamente percepisco il pericolo incombere, aleggiando come un’oscura minaccia. Cosa pretende costui da me? E perché io, che a malapena reggo la vista di queste sventurate creature, dovrei farmi carico di un tale carico?
    «Criso, voi mi onorate con questa richiesta» affermo. La voce mi trema sebbene io tenti di mantenere un contegno. Un cieco terrore s’impossessa di me. «Tuttavia non ritengo di esser degna di questa responsabilità. Il Signore vi ha parlato e vi ha indicato la via. Io sono soltanto una giovane novizia, e temo che una tale tracotanza possa essere d’insulto a Colui che vi ha indicato.»
    «Sciocchezze.»
    Indietreggio. Forse riuscirei a sfuggirgli correndo, ma il dubbio su cosa fare mi logora. Le pareti e l’oscurità iniziano a opprimere i miei sensi. Costui possiede un’arma mortale tra le mani; sarebbe così semplice per lui farmi del male e andar via senza alcun testimone, lasciando il mio corpo alla mercè dei folli che abitano questo luogo, lasciando a intendere che la mia morte sia avvenuta per mano loro e per una mia ingenuità. Tremo mentre le gambe paiono cedere.
    «Sciocchezze!» s’altera. «Voi siete prescelta tramite Me. Io v’investo della responsabilità in nome di Dio. Non potete rifiutare, Gemma. Non adesso che sapete.»
    Avanza d’un passo e per me è troppo. Le sue intenzioni mi sono del tutto ignote.
    «Io non credo d’essere adatta a un tale compito. Mi dispiace, cavaliere.»
    «Voi lo siete eccome, Gemma. Siete l’unica che possa aiutarmi!»
    Follia, ecco cosa traspare dal suo volto trasfigurato. Fa per avanzare. Orribili immagini mi corrono alla mente mentre vaglio le possibilità di tutto ciò che potrebbe accadermi.
    «Lo nego» affermo, arretrando.
    «Non potete sottrarvene. Non potete!»
    Scatta come per afferrarmi e io non resisto un secondo in più. Mi volto, fuggo senza nemmeno accertarmi che qualcuno mi stia realmente seguendo. L’affanno m’offusca l’udito, le lacrime m’appannano la vista, e poi esplode l’oscurità; la torcia deve essersi spenta o esser caduta. La sola luce della luna, proveniente dal portone aperto in lontananza, mi indica la via.
    Quando giungo al portone di legno sfilo la chiave d’impulso e me lo richiudo alle spalle.
    Un pesante tonfo, poi un silenzio che, alle mie orecchie straziate dalla corsa – e solo ora mi accorgo, dalle mie stesse urla – quasi pare irreale. Respiro, a fatica. Cerco la chiave, a tentoni, e d’istinto la rigiro nella toppa, murando vivo il cavaliere tra il suo esercito di cadaveri presenti e futuri.
    “Perdonami, o mio Signore, perdonami se costui dice il vero, ma non ho la forza di eseguire questo comando.”
    Con la schiena poggiata all’aspro legno sobbalzo e trasalisco quando odo dei colpi abbattersi sul portone, pugni duri. Poi la voce.
    «Gemma! Siete impazzita? Per l’amor di Dio, apritemi!»
    Inspiro, espiro, il ritmo è troppo rapido. Gli occhi guizzano, esplorando i dintorni. Nessuno nei paraggi. La mente viaggia. Le stanze sono lontane.
    Si alzano delle grida, ma non sono più solo quelle del cavaliere: adesso la sua voce, tonante e possente, pregna di rabbia, vibra d’una nota di terrore. Il sonno s’è interrotto in coloro che giacevano sopiti in quel piccolo Inferno.
    «Aprite! Ve ne prego, aprite!»
    Aprire vorrebbe significare subirne l’ira, e non ne sono disposta; al contempo l’orrore che provo per quel luogo maledetto, unito alla misericordia, mi impediscono d’essere del tutto ferma nel mio proposito. Mi chino, infilando la chiave al di sotto dello spesso portone.
    «Avete la chiave» urlo, ma qualcuno all’interno sta urlando più di lui. «La chiave, sotto la porta!»
    Sento il metallo cozzare con la serratura e capisco che a breve la porta si aprirà. Libera dal senso di colpa fuggo verso le stanze ove la Madre Superiora riposa. Devo parlarne. Dio è grande e il Suo volere non reca mai sofferenza; costui è un servo della Morte, e non voglio che anime innocenti continuino a esser torte a causa sua.
    Mentre fuggo spendo un attimo a guardarmi alle spalle. Le urla dei folli sono vicine e, per la prima volta, quelle del cavaliere sono le più insistenti e atroci. La porta non si apre e non accenna a farlo.
    Scuoto il capo e le lacrime mi bagnano le guance al pensiero del viso di quell’uomo, della lieve gentilezza con cui mi rivolgeva la parola, e rabbrividisco al pensiero del suo secondo fine. Non mi volto più: devo chiamare qualcuno, devo salvarlo.
    Mentre entro nelle stanze le sue urla si spengono, ma quelle dei folli continuano a levarsi alte nella notte.

    Edited by Flora* - 2/11/2017, 19:58
     
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  2. Flora*
     
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    Autori Fante Scelto e Giovievan
    Voto 10
    Coerenza 4
    Ottimo uso dei due tropi: un templare aberrato e una morte karmica ben realizzata.
     
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  3. MyaMcKenzie
     
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    CITAZIONE (Flora* @ 2/11/2017, 20:00) 
    Autori Fante Scelto e Giovievan
    Voto 10
    Coerenza 4
    Ottimo uso dei due tropi: un templare aberrato e una morte karmica ben realizzata.

    Devo fare i miei complimenti a entrambi, il mio pezzo preferito!
     
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  4. Befana Profana
     
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    Fante, ero sicura di averti riconosciuto, stavolta! Bellissimo pezzo! :Emoticons%20(276):
     
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  5. Achillu
     
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    Non ho riconosciuto gli autori ma concordo che sia uno dei migliori racconti della seconda manche.
     
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    Grazie a tutti!

    Achillu, avevo attribuito a te il completamento del brano tra l'altro.

    @Giovi: qua la zampa, ottimo lavoro.
    Come ti sei trovata a completarlo? Impreza disperata?

    A proposito: è dalla primissima lettura che avevo pensato a te, ma proprio sicuro al 100%.
    E fino a un istante prima della consegna degli abbinamenti sentivo la voce della coscienza che continuava a ripetere "è lei, è lei, è lei, è lei, fidati che è lei".
    Io ho annuito.
    Più volte.
    E poi ho pensato, "Ma no, dai, sarà Achillu".
    E niente, finisce così.

    ciao, grazie
     
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5 replies since 1/11/2017, 19:01   39 views
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