Olimpiadi Letterarie

Una vittoria per Brittany; una speranza per il mondo intero

Sfida II, articolo giornalistico, tema eutanasia

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    6 ottobre 2015
    di Emina Ristovic

    Quanto vale la vita di un essere umano? Fino a dove ci si può spingere per preservarla? È giusto, quando si soffre troppo, porre fine alla propria esistenza? Il dibattito, a un anno dalla morte dell’americana Brittany Maynard, è ancora acceso.
    Ricorderete senz’altro il viso sorridente della ventinovenne di San Francisco Bay, in posa insieme al marito Dan il giorno delle loro nozze, quando la vita aveva ancora un sapore dolce. Brittany, raggiante come ogni sposa, non poteva certo immaginare che un male incurabile stesse per bussare alla sua porta.
    Comincia così il lungo calvario di Brittany, con un improvviso e semplice mal di testa. Quando le viene diagnosticato il cancro al cervello, lei e i suoi familiari sono fiduciosi di riuscire a sconfiggere il nemico. Brittany, speranzosa, si sottopone a un primo ciclo di cure. I risultati, purtroppo, non sono quelli che si aspetta di ottenere. Il cancro ritorna più aggressivo che mai. Per i medici il quadro è chiaro: le rimangono pochi mesi di vita, al massimo sei.
    Di fronte a una notizia del genere Brittany non si perde d’animo. È una ragazza coraggiosa, ben cosciente di quello che la aspetta nei giorni e mesi a venire. Con la famiglia ha fatto delle ricerche, sa che non esiste un trattamento capace di darle il sollievo. Vuole godersi al massimo i momenti che le restano insieme a coloro che ama, prima di dire loro addio, il sorriso sempre sulle labbra nonostante tutto.
    La scelta di morire lo scorso primo novembre, accorrendo al suicidio assistito, arriva dopo una attenta e lunga riflessione. Il dolore forte alla testa, al collo, le continue convulsioni: non è così che vede se stessa in futuro. Non vuole passare i suoi ultimi giorni a lottare contro un cervello che la sta consumando lentamente. Non le sembra giusto condannare chi le sta accanto a vederla annientarsi sempre più.
    Vuole morire con dignità.
    In California, dove vive, l’eutanasia è ancora un tabù. Gli stati che hanno adottato il “Death with Dignity Act”, la legge in vigore dal 1997 che consente ai malati terminali di prendere un farmaco per porre fine alla propria esistenza, si contano con le dita di una mano sola: Oregon, Washington, Montana, New Mexico e Vermont.
    Brittany non ha un’altra alternativa, se vuole andarsene in pace è costretta di cambiare la dimora. Portland, nell’Oregon, non sarà la sua San Francisco Bay, ma è il luogo in cui può finalmente decidere come disporre della propria vita.
    La difficile scelta di Brittany commuove, ma al contempo divide l’opinione pubblica statunitense e non solo. Nessuno può sostituirsi al Dio, gridano i gruppi religiosi che sono tra i primi a condannare la ragazza. C’è chi la chiama suicida. Lei, incurante e senza pelli sulla lingua, risponde con le parole che toccano tutti.
    «Non sono una suicida, e se lo fossi stata, l’avrei già fatto, ma sto morendo e voglio farlo. Il mio tumore è così grande che servirebbero delle potenti radiazioni solo per rallentarne l’avanzata. Effetti collaterali sono spaventosi. Abbiamo verificato, non esiste un trattamento. Le cure palliative non riducono il dolore devastante. Ho deciso per una morte dignitosa.»
    Sono parole che fanno riflettere e scuotere le coscienze. La vita è un dono, il più prezioso che abbiamo. Se c’è una piccola speranza, anche se flebile e di quelle che muoiono ultime, bisognerebbe continuare lo stesso a lottare e credere in una guarigione miracolosa? Una morte silenziosa e autoindotta, irreale però meno sofferente, è davvero così dignitosa?
    I familiari di Brittany Maynard, oggi, non avrebbero dubbi su quale sia l’opzione migliore. Lei stessa, prima di morire, ha dedicato il tempo che le restava a ingaggiare la battaglia per permettere alle persone nella sua condizione di avere il diritto di scegliere come spegnersi. È per loro che ha istituito “The Brittany Maynard Fund”, perché sognava che il “Death with Dignity Act” diventasse realtà anche nella sua California.
    Brittany Maynard se n’è andata lo scorso primo novembre tra le mura della sua casa nell’Oregon, con accanto tutti i suoi cari, in pace, proprio come desiderava. Prima di prendere la medicina e chiudere gli occhi per sempre, è riuscita a visitare il Grand Canyon, realizzando così uno dei suoi vecchi sogni nel cassetto. Se n’è andata felice e serena, convinta della scelta che aveva fatto con consapevolezza e lucidità.
    Oggi, il giorno in cui il governatore della California, Jerry Brown, un ex seminarista gesuita, ha firmato il disegno di legge che permetterà ai medici di prescrivere i farmaci di “fine vita”, si realizza l’ultimo dei sogni di Brittany.
    La notizia della vittoria, dal sapore decisamente dolce amaro, ha raggiunto anche la famiglia Maynard. «Questa giornata dà uno scopo alla morte di mia figlia — dice la madre di Brittany — e apre un dialogo sulla morte e sul morire.»
    Un dialogo che speriamo possa placare i dissidi e far capire quanto sia importante avere il diritto alla scelta. Come diceva Brittany, “la possibilità di morire dignitosamente” è uno dei principali diritti umani. Facciamo in modo che lo diventi veramente.
     
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