Olimpiadi Letterarie

La guerra è finita

Finale - Ucronico

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    Vessatore di pterodattili

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    La guerra è finita

    La dottoressa ha un momento di vuoto, di emozione, poi prende un respiro.
    “Ci siamo”, sorride l’assistente, “Salga lassù e spieghi loro com’è andata. Dopo tutti questi anni è giusto fare luce sul passato”.
    Una stretta di mano.
    “Buona fortuna”.
    La donna si alza su gambe malferme per l’età, si avvia sul palco.

    ***


    Gavrilo è teso, nervoso, lo è da quella mattina.
    Osserva tra la folla il convoglio che ha ripreso a muoversi, che avanza, che sta portando gli illustri ospiti verso di lui.
    Scorge l’auto di testa fare manovra.
    Un’occasione perfetta: Gavrilo toglie la pistola dalla cintola, la tiene contro il fianco e comincia a camminare. Accelera il passo, corre spingendo i curiosi, si fa largo, arriva sulla carreggiata, irrompe dietro la decappottabile ferma: ha l’arma tesa e il coraggio dei martiri.
    Qualcuno grida, dei poliziotti scattano, nessuno vicino abbastanza da fermarlo.
    Se qualcosa ferma Gavrilo, per un istante, è solo un barlume di consapevolezza, l’idea di stare compiendo un gesto cruciale: quello è l’attimo nel quale l’uomo sull’auto si volta, allarmato.
    L’attimo nel quale due mondi s’incontrano ai capi opposti di una pistola FN10.
    Un sussulto d’azzurro è la divisa da parata dell’Arciduca, è il cielo di Sarajevo: Gavrilo spara una volta prima di essere atterrato dalla polizia.

    Ultimatum respinto: è guerra.
    “Un pretesto”, Egon getta sul tavolino il giornale, indifferente, accanto alla tazza, “Cercavano un pretesto. A nessuno importa che l’Arciduca viva o muoia: la Serbia è un problema che va risolto, e l’Impero non aspetterà ancora per trovare questa soluzione. Vuoi la mia? Speravano che succedesse. La Mano Nera, gli irredentisti serbi: fesserie. Francesco Ferdinando è stato l’agnello sacrificale per poter distruggere Belgrado”. Pausa. “Sai cosa si dice? Che lui, sì, l’Arciduca, in realtà voglia la pace. Che non gliene importi nulla di distruggere i Balcani, ma che abbia un progetto diverso per quando sarà imperatore: una federazione”.
    Otto annuisce appena. “Ormai è tardi per i progetti: qui sta per scoppiare tutto. La Russia è in mobilitazione generale, presto lo saranno anche Inghilterra e Francia. Magari si combatterà solo fino a Pasqua, ma se qualcosa andasse storto? Se questa guerra sfuggisse di mano?”.
    Egon inspirò a fondo. Preferì non rispondere.

    Rumore cadenzato di vanghe nella terra: migliaia di strumenti al lavoro, migliaia di schiene piegate, di camicie sporche, di volti sudati.
    Henri scava assieme al resto del plotone, i capelli lisci e lunghi gli si incollano alla fronte.
    “Scavare, scavare!”, il capitano incita passeggiando lungo la linea, baffi curati, “I Tedeschi saranno qui a giorni, Dio Santo! Scavare!”.
    Henri scava, senza sosta, mosso da quello stesso spirito combattivo che anima l’intero plotone, tutta la compagnia.
    Intorno a loro, maestosa e grottesca, si allarga un ferita che già molti chiamano la trincea.

    Il plotone marcia da giorni attraverso la campagna belga: poco riposo, poco cibo, tanta smania di battersi, di andare incontro al nemico, di iniziare finalmente questa guerra liberatoria.
    August non sente la stanchezza, o forse non ne prova affatto.
    Ha il fucile in spalla, gli stivali impolverati e il volto sbarbato.
    La colonna di uomini avanza tra i campi di grano e i tulipani, migliaia di elmetti chiodati oscillano nella brezza.
    August ha ancora nello zaino i pennelli e qualche tela, come a Bonn, prima di partire: si eserciterà nei tempi morti, o magari a Parigi, quando le armate del kaiser la raggiungeranno, tra un mese, massimo due.

    Piove a dirotto, la terra s’inzuppa e così il fondo della trincea.
    L’ordine è quello di tenere la posizione, non si può avanzare, non c’è scelta: bisogna scavare, fortificare, trasformare miglia quadrate di campagna in un mattatoio a cielo aperto.
    Henri sta seduto sul fondo del camminamento, il fucile accanto, l’elmetto di traverso.
    Non ha sparato un colpo, non ha visto un Tedesco neppure col binocolo, per mesi, anche se ormai lo scontro è vicino, la madre di tutte le battaglie sta per incominciare. Per ingannare il tempo fa quello che sa fare meglio: toglie dalla saccoccia della creta, la manipola, inizia a darvi forma. Non è come scolpire la pietra, nel suo studio di Parigi, ma è un gesto che lo conforta, gli dona ispirazione.

    Piove, a dirotto, su una terra già brulla che minaccia diventarlo ancora di più.
    August sta a poca distanza da dove si costruiscono le casematte della linea arretrata, dove affluiscono i primi obici e l’artiglieria pesante.
    I Francesi stanno dall’altra parte, ad un miglio appena.
    Le mani fradice sul fucile: vorrebbe dipingere, August, come faceva a Bonn, vorrebbe dipingere quel panorama desolato che il corpo ingegneri sta rendendo ancora più scarno, dipingere per non dimenticare, per dire un giorno guardate cosa ho veduto in guerra, quando la Germania si è conquistata gloria infinita a…
    Fa un cenno verso il commilitone accanto. “Come si chiama qui?”.
    “Qui?”, fa lui sotto lo scrosciare della pioggia sugli elmetti chiodati.
    “Il nome. Dove siamo?”.
    “Verdun”.
    Poche ore, e i cannoni cominceranno a cantare la loro canzone di trionfo.

    La porta dello studio Quadrilatero si apre di schianto: la figura che vi entra, a passo deciso, ha un piglio autoritario e deciso che solo un membro della casa Imperiale può possedere. I ministri in riunione plenaria interrompono di parlare e osservano, attoniti, il fantasma che si è trascinato nella sala, indosso una camicia sotto la quale biancheggia una vistosa fasciatura.
    Francesco Ferdinando ha due occhi che ardono come tizzoni sul volto ampio.
    Persino l’Imperatore, a malincuore, deve voltarsi verso il nuovo venuto.
    “Cessate”, la mano di Ferdinando trema come il suo volto, “Cessate questa follia”.
    Il vecchio Giuseppe d’Asburgo arrossa, la fronte si corruga, pure trattiene l’ira. “Ti sei appena risvegliato, nipote”, commenta con le labbra che si torcono, “Non sei in te: lascia questa riunione per quando sarai in grado di prendervi parte”.
    “Non capite”, l’indice di Ferdinando è un monito, una spada puntata avanti, è la folgore che vive nel suo sguardo alienato. “Non capite?! Avete mandato divisioni contro la Francia, la Russia, avete spedito centinaia di migliaia di uomini verso un massacro!”.
    “Non osare”, i fremiti del vecchio Imperatore crescono di tono come il rossore sul volto, “Contestare le scelte mie e di questo Consiglio. Quando sarai Imperatore, solo allora potrai fare le scelte che riterrai opportune”.
    L’erede al trono ha un gesto inconsulto, trema anch’egli. “Non è questo l’Impero che desidero ereditare! Non uno fatto di macerie e carneficine!”. Il vecchio fa per replicare, lui parla più forte, soverchiandolo come non ha mai fatto, schivo e austero in una vita ai margini della corte. “Richiamate l’esercito! Ritirate le truppe da tutti i fronti! Non passate alla storia per colui che ha causato la fine dell’Austria-Ungheria”.
    Un silenzio infinito.
    Giuseppe d’Asburgo serra i denti, sta per replicare, livido e offeso: la fitta al cuore spezza sul nascere qualsiasi risposta. L’Imperatore si accascia debolmente mentre uomini si alzano per soccorrerlo, fogli cadono in terra, mappe con sopra indicate lunghe linee di terra devastata.
    La concitazione cancella ogni sensazione eccetto quella che Ferdinando prova, affaticato, nel fissare quelle carte che paiono già grondare sangue, lo stesso che ha visto, tempo prima, sulla propria divisa immacolata.
    “È morto”, sussurra debolmente Von Beck chino sul corpo del vecchio Giuseppe.
    L’erede al trono non ascolta: fissa con occhi allucinati i ministri.
    “Fermate questa macchina di morte, prima che sia troppo tardi”. Respiri gravi, la fasciatura che si intride di sangue. “L’Austria deve diventare una federazione governata da un re. La guerra”, il volto madido si colora di una speranza nuova, “Non è la risposta che stiamo cercando”.
    In quegli occhi allucinati appare la figura di un ragazzo, una pistola alzata, un ragazzo serbo che all’ultimo istante, prima di tirare il grilletto, ha capito cosa sarebbe successo.
    Ha sbagliato di proposito il colpo.

    “La guerra è finita!”.
    “La guerre c’est fini!”.
    “Der Krieg ist vorbei!”.
    Soldati si scambiano sorrisi increduli, delusi, amari, o solo sorrisi.
    Trincee si elevano con migliaia di uomini che guardano se stessi, poi le opere d’ingegneria erette per nulla. Gli aerei fermi nei campi di volo. I fucili rimasti in spalla.
    Uomini che sono venuti al fronte per scelta, ispirazione, necessità od obbligo: uomini cui ora viene detto si torna a casa. Il Principe Redivivo ha ordinato la pace.
    L’Austria ha chiesto la fine di tutte le ostilità.
    L’Europa, la Russia, hanno accettato.
    La guerra è finita.
    La guerra non è mai iniziata.

    “Vorticismo?”, Lewis osserva con un sorriso le sculture esposte nel nuovo padiglione del British Museum, “L’arte si allarga verso orizzonti sempre nuovi”.
    “Ed è solo l’inizio”: un giovane artista francese dal bel viso e dal sorriso suadente tende la mano.
    “Come avete detto che vi chiamate?”.
    “Henri Gaudier”.
    Ha una stretta energica.

    August scende dal treno che lo ha portato a Monaco. Ha in testa l’elmetto chiodato e in spalla lo zaino con le tele e i pennelli.
    Non ha un’idea precisa di cosa farà ora, o forse sì.
    Per farsi un nome è presto, ma da qualche parte bisognerà pur iniziare. Lo sguardo gli cade su un ragazzo, giovane, esile, seduto su una delle panche della stazione: ha in mano un foglio dell’esercito ma non indossa alcuna divisa.
    “Ehi”, lo apostrofa, e scorge nei suoi occhi una qualche meraviglia mista a rabbia, “Sei stato rifiutato?”.
    “La guerra è finita”, sibila con sguardo perso, assente.
    “Poco male. Ci sarà qualcos’altro che sai fare”.
    “Dipingere”.
    Un sorriso illumina il bel volto di August. “Davvero?”.
    Assenso.
    “August. August Macke”, gli offre una stretta. “Potremmo lavorare assieme. Non conosco nessuno qui”.
    “Magari”.
    “Ci saranno altre guerre, un giorno, se è quello che vuoi. Fino ad allora, le nostre armi saranno i pennelli, e chissà che non ci passi la voglia di menar le mani”.
    Malvolentieri, il ragazzo si alza.
    “Il tuo nome?”.
    “Adolf”.
    “Molto bene, Adolf. Vediamo che sai fare”.

    ***


    La donna, ormai anziana, sale sul palco tra gli applausi composti della platea. Come ambasciatrice ONU per la cultura, ha speso anni per far luce su un periodo, inizio secolo, rimasto avvolto nella sua stessa torbida ombra.
    Sorride, prima di stendere gli appunti sul leggio.
    C’è stato un uomo, all’epoca, il cui ruolo non è mai stato chiarito. Un ragazzo serbo con una pistola, a Sarajevo. Un principe che ha sfiorato la morte e che è tornato indietro dall’abisso in tempo per prendere le redini dell’Impero: non lo amavano in molti quel principe, anzi, non era benvoluto. Era tetro, si diceva. Schivo e altero.
    Oggi sappiamo che, se è stato evitato un conflitto di proporzioni disastrose, lo dobbiamo a lui.
    La dottoressa Annelies Frank schiarisce la voce, poi inizia a parlare.

    Edited by Fante Scelto - 28/11/2017, 00:25
     
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    Avrebbe potuto essere e tu l'hai fatto diventare realtà. Molto bello.
     
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